Politica

Io, poeta, nella giuria delle Veline

Ci sono mondi che sembrano per definizione inconciliabili. Quello della poesia, elitario, povero, minuscolo ma con immense ambizioni spirituali. Quello delle veline televisive: popolare, di grandissimo impatto mediatico, estraneo per lo più a ogni tormento dello spirito. Mondi che si elidono, direbbe qualcuno più severo di me. Mondi che si incontrano, anche se nello spazio di un attimo, dico io, chiuso in questo camerino dello studio 11 nel complesso di Mediaset a Cologno Monzese, mentre aspetto mesto e un po’ galvanizzato che l’assistente di produzione mi chiami per partecipare come giurato alla finalissima di Veline. Mi ha portato un toast e dell'acqua minerale frizzante, mi ha accompagnato al «parrucco», ovvero dalla pettinatrice che ha dato una occhiata sconsolata ai miei capelli, come dire: che cosa posso farne? Ci spruzza una nuvola tempestosa di lacca. In alternativa mi aveva proposto un codino piccolissimo per tenerli in ordine. Ho rifiutato il codino. Come frivolezza, ce n’è già abbastanza nell’essere qui. Camminando nel corridoio, intravedo nel loro camerino due protagoniste, due aspiranti veline, una bionda e una mora come da copione. Sono lì impaurite, titubanti, nei loro movimenti e nei loro sguardi si vede tutta l’ansia che stanno provando. Altro che «stacchetti»: sembrano due che stiano per farsela sotto.
Il mio camerino è davanti alla sartoria. Sbircio per vedere qualche vestito, perché l’abito e il trucco fanno il monaco in televisione. Basta pensare alla differenza tra la Nina che ho visto prima sul piazzale, in jeans e felpa, irriconoscibile, e quella che mi compare davanti con quelle gambe da autostrada e quel seno che si spinge tanto in fuori come se volesse spiccare il volo. Aspetto Antonio Ricci, il maestro della televisione e della satira, a cui mi legano amicizia e Liguria. Ma Ricci tarda. Così me ne sto lì, e continuo a sbirciare il corridoio. C’è un ragazzo che fa il tecnico ed è sicuramente atteso nello studio ma se ne sta lì impalato anche lui, in ammirazione. Io mi giustifico: non sono un voyeur, sono un giurato. Non ho il coraggio di dire: sono uno scrittore, un poeta: non ci crederebbe.
Una spilungona in abito di lamé cortissimo beve con fare cameratesco dal collo di una bottiglietta di minerale. A un’altra ragazza una sarta sta finendo di cucire addosso un corpetto bianco. Una dall’espressione molto intensa, dai tanti riccioli neri e dal nome arabo che fatalmente rende ancora più succinte le dimensioni dei suoi pantaloncini, si fa fotografare con una sarta, e poi si scatta una foto con lei. Fric... fric... i telefonini qui servono a quello. Due si fanno ritrarre abbracciate... Ora sono nello studio, sul palco, le luci sono sfolgoranti, un assistente sciamannato e ammiccante raccomanda urlando al pubblico di alzare le mani al cielo appena le telecamere cominciano le riprese. C’è un clima di attesa quasi messianica. Non sarà troppo? È la diretta il nuovo dio del nostro tempo? E le aspiranti veline sono dietro una specie di tenda, sedute, afflosciate, soffocate dalla tensione. Nel giro di un balletto e di due battute si giocano il loro destino dei prossimi anni: l’ombra, o una sterminata visibilità mediatica, pubblicità, grana. E io? Che ci faccio io? Devo votare. Devo scegliere. E non è facile. Ma neppure difficile. Per me, in fondo, è un gioco, un’ora di divertimento fuori del mio solito mondo, una prova generale di autoironia. Non ho sempre sostenuto che la poesia è viva, pervade le nostre vite e la nostra realtà anche quando esse lo ignorano? Il copione prevede che mi si chieda se le veline sono pura poesia. Rispondo in difesa. Per quello che le conosco io, le ragazze sono belle «fuori», cioè hanno delle belle forme, e dunque, concludo con un po' di retorica, sono la «forma» vivente della poesia. Ma la poesia vera, quella terribile, fatta di verità e di tormento, di tenerezza e di disperazione come la vita la incontro alla fine. Dopo che la coppia vincitrice, Federica Nargi e Costanza Caracciolo, fresche e bambine, adatte a destare simpatia prima ancora che desiderio, è stata proclamata tra corone, scettri e coriandoli. Mi imbatto in una delle ragazze sconfitte. È quella dall'improbabile nome esotico, Jade, quella che io personalmente ritenevo la più dolce e sexy insieme. È a piedi nudi, spettinata, il trucco disfatto, devastato dalle lacrime: semplicemente bellissima. Faccio quello che un giurato non dovrebbe mai fare. Le svelo il mio voto. Non ti avrei escluso, le dico, anzi, mi correggo, non ti ho escluso, ed è vero. Le accenno una carezza, ahimè molto, molto paterna. Ci vuole altro per consolarla. Mi mormora semplicemente grazie.

E continua a camminare a piedi nudi, chissà perché, e a piangere.

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