Cultura e Spettacoli

Il vecchio saggio snobbato dai radical chic

Morire durante le feste natalizie è un destino che ha in sé un supplemento di tristezza, ma forse anche di poesia. Carlo Sgorlon, ammalato da tempo ma risoluto nel combattere la malattia e nel continuare a scrivere, se ne è andato mentre si celebra la nascita del Bambino divino e il ritorno di più ore di luce, nel momento più misterioso di quel mondo di tradizioni, riti, prodigi a cui egli come scrittore si è sempre richiamato con forza e con saggezza.
Sgorlon apparteneva a quella famiglia sempre meno numerosa di autori che esercitano il proprio lavoro in solitaria, autentica libertà: era animato da un profondo spirito cristiano senza mai cadere in dogmatismi confessionali, era un conservatore senza certe acide asprezze ironiche che talvolta contraddistinguono i conservatori, era un grande narratore naturale, affabile, attento al pubblico, ma nondimeno nutrito di una cultura in grado di elaborare una poetica e una originale visione delle cose.
Friulano, fece del Friuli quello che Giono aveva fatto con la sua alta Provenza. Abitando in un territorio limitato, periferico, di confine, e restandogli fedele, riuscì mirabilmente a farne un territorio dell’anima, una fonte ricchissima di ispirazione, una rappresentazione alta e drammatica, e nondimeno felice, della condizione e del destino dell’uomo. Sgorlon è stato un narratore epico, fluviale, innamorato di miti e leggende, sensibilissimo al sacro e al divino. Era capace di toccare temi arcani ma anche di grande attualità, si ispirava ad antiche storie ma era attento alla condizione della natura oggi, natura di cui si propose subito come appassionato difensore contro gli scempi della industrializzazione senza criteri e di uno sfruttamento senza limiti. Era affascinato dal tema delle migrazioni di popoli, e seppe trattarne con potenza visionaria. Come spesso chi ha un’anima religiosa ed è cultore della civiltà contadina, non nascose di prediligere la tradizione con i suoi valori stabili, eterni.
Ricordo come durante i nostri incontri, rari ma sempre così ricchi di comunicazione e di simpatia umana e intellettuale, esprimeva la sua ammirazione per il lavoro artigianale ben fatto, per chi sapeva costruire un muro con le proprie mani, per madri che partorivano e nutrivano con amore numerosi figli. Era nemico del divorzio, dell’aborto. Potevo non essere d’accordo in tutto con lui, ma ne rispettavo la sincerità, la lealtà. Se era un conservatore, lo era in maniera anarchica, atemporale. Un uomo di oggi, che percepiva la drammaticità dei nostri tempi, ma sentiva i cicli della natura e i moti dell’anima come se fossero quelli descritti in Esiodo e nella Genesi.
Con queste premesse, era fatale che Carlo Sgorlon dovesse trovare ostilità o indifferenza in una certa critica italiana, che volle vedere in lui soltanto un semplice affabulatore popolare. La prima cosa di cui parlammo, quando ci conoscemmo una ventina di anni fa, fu proprio quella. Colsi in lui una certa amarezza, ma pacata e quasi solenne. Era uno scrittore baciato dal successo di pubblico, pluripremiato, ma capiva che veniva messa in ombra proprio la sua alta cultura letteraria, la sua originale poetica romanzesca. Sgorlon aveva elaborato una visione propositiva dello scrivere, in contrasto con l’idea di letteratura autoriflessiva, ironica, parodistica, minimalista, per decenni dominante in Italia. Nella sua casa di Udine, sdraiato sul letto, come mi raccontò una volta, lavorava ininterrottamente con perizia artigianale e con ispirazione potente a pagine piene di passioni e avventure, anche corali, ancestrali, legate a tradizioni e culture lontane e da disseppellire dall’oblio.
Aveva esordito con l’epopea mitica e fiabesca del Trono di legno del 1973, forse il suo maggiore successo di pubblico. E nella sua ampia attività di autore, che comprende romanzi come Gli dèi torneranno, La conchiglia di Anataj, L’armata dei fiumi perduti, La malga di Sîr, affrontò temi della civiltà contadina del suo Friuli e tragedie della storia, come quella terribile delle foibe di Porzûs. In uno dei suoi ultimi romanzi, L’alchimista degli strati, si spostò dal Friuli verso lontani paesi orientali per toccare temi come quelli delle risorse energetiche del pianeta e del rapporto tra l’Occidente e l’Islam vissuto senza pregiudizi isterici, rivelando più freschezza e più lungimiranza di tanti giovanotti oggi di moda.
Ripensandolo con commozione, non posso esimermi dal ricordare che quando proprio su questo giornale - lo scorso anno - recensii la sua autobiografia intitolata La penna d’oro, ne nacque una polemica ampia ed aspra, dal colorito anche politico. In quelle pagine, tra risentite e dolenti, Sgorlon si lamentava con esplicita franchezza della società letteraria che non gli aveva riconosciuto un ruolo adeguato e perfino di un Friuli che lo isolava e dimenticava. La posizione di Sgorlon, il suo non essersi mai schierato dalla parte del pensiero omologato e conformista di certa sinistra culturale aveva provocato certi silenzi, certi ostracismi, certe interessate dimenticanze. Era evidente, nonostante l’arrampicarsi sugli specchi di certuni. Ma venne fuori con pari chiarezza che Sgorlon, avversato dalla sinistra, non era in realtà di nessuna parte. Come tutti gli uomini liberi, come tutti gli scrittori veri, perseguiva le proprie idee incurante di convenienze e di obiettivi di potere da raggiungere.
Ora che non c’è più, questi giorni di festa mi sembrerebbero più vuoti, se non rimanessero le sue pagine e il suo ricordo.

Addio Carlo, la tua anima voli tra foreste di alberi di Natale, e trovi la sua pace nell’armonia di quel cosmo che hai sempre raccontato celebrandone bellezza e mistero.

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