Cultura e Spettacoli

Avallone, la triste ala della giovinezza

Che cosa è la giovinezza? Nessuno riuscirà mai a definire questa felice e infelicissima età della nostra esistenza. Nel corpo le cellule continuano a crescere, reazioni di chimica spirituale agitano la mente, pulsioni di morte e desideri di vita si fondono in un groppo inestricabile. È la giovinezza che spinge a cercare nella scrittura non soltanto un mestiere, ma una via per decifrare il mistero di se stessi e del mondo.
Stavo leggendo in ritardo di più di mezzo secolo Le piace Brahms di Françoise Sagan, quando ho ricevuto il romanzo di Silvia Avallone, Acciaio (Rizzoli, pagg. 358, euro 18). Non potevo trovarmi di fronte a due opere più diverse. Eppure qualcosa mi spingeva a leggerle in parallelo. Ed era proprio il fatto che la Sagan scrisse il suo libro alla stessa età della Avallone, intorno ai venticinque anni, e che tutte e due le autrici a tanta distanza di tempo sono protagoniste di un caso letterario imperniato sulla loro imperiosa, strepitosa giovinezza. Ma, come dicevo, le realtà e gli stili delle due giovani donne appaiono lontanissimi. Da una parte, quella della Sagan, l’alta borghesia, Parigi, la ricchezza, la spregiudicatezza, quella libertà esistenziale e amorosa che a molti di noi nati alla metà del secolo scorso sembrò la conquista più grande dei nostri tempi. In sottofondo, musica classica e jazz alla Miles Davis. Dall’altra parte, quella della Avallone, un proletariato in via di perdere la propria identità, Piombino affacciata su un mare dove l’isola d’Elba appare come un miraggio, le acciaierie in crisi, case popolari, reazioni imbarbarite di fronte al sesso, gelosie morbose, esistenze miserabili e perdute, o indurite e in cerca di riscatto. E in sottofondo il brusio continuo di Rai Uno o di Canale 5, e la vocina di Britney Spears.
Nei personaggi della Sagan mi ritrovo, mi sembra di conoscere o aver conosciuto Paule, Roger, Simon, le loro solitudini felpate, le loro fughe, le loro incertezze, il loro dialogare che sa di Sartre e di Juliette Gréco. Eppure sono i personaggi della Avallone, tratti da un mondo di cui non so nulla, quelli che mi colpiscono, mi feriscono con l’evidenza della loro vitalità pura e disperata. Le due ragazzine di via Stalingrado, Anna e Francesca, sono colte dalla Avallone nel momento del passaggio da bambina a donna, in pagine toccanti, sincere, capaci di descrizioni sospese tra innocenza e carnalità. Sono belle, provocanti, consapevoli della loro bellezza e fiere di essa in maniera spavalda, e nello stesso tempo impaurita e dolente. Hanno padri «babbuini» e li odiano, come in fondo tutte le adolescenti. Enrico, un irsuto, gigantesco, cupo operaio che spia al binocolo la propria figlia mentre esplode sulla spiaggia la sua sensualità contagiosa (è il bellissimo attacco del romanzo); Arturo, un allegro avventuriero ai margini della legge che manca da casa per mesi e poi ritorna carico di pasticcini e di regali. Tra i protagonisti maschili, spicca Alessio, bello e inquieto, pronto a votare Forza Italia, che vuole una Golf GT, «mica la giustizia sociale», e ha alle spalle una dannata storia d’amore con una ragazza di ceto più alto. Anche le madri delle due ragazze sono disegnate con evidenza drammatica: una, Sandra, lavoratrice e attivista di Rifondazione comunista, l’altra, Rosa, casalinga fatta schiava da un familismo arcaico e miserevole.
Ma su tutto dominano loro: Anna e Francesca. La loro è una bellezza che cancella persino la pietà, una bellezza incosciente, naturale e dunque amorale, che le spinge a disdegnare la compagnia di «racchie» e «sfigate», e persino a guardare con ciglio asciutto, infastidito, una povera bambina malata. Sono attratte l’una dall’altra, complici sino allo spasimo e alla tentazione saffica, che però non va mai oltre un infantile turbamento. Poi diventano capaci di una sorda inimicizia, quando all’orizzonte di una si affaccia un giovane uomo, Mattia, e cominciano a cercare strade diverse piene di ostilità e di rimorso.
Tra casermoni operai, discoteche, spiagge derelitte, sogni televisivi, Anna e Francesca sono due figure nuove e smaglianti nella nostra narrativa. Parlano un linguaggio sboccato come oggi tutte le adolescenti, talvolta ridicolo, con cadute nell’ovvietà del gergo giovanile. Eppure hanno una consistenza drammatica, una fisicità che sgomenta, una ferocia che nasconde abissi di tenerezza. Silvia Avallone ha scelto un mondo circoscritto, in crisi di identità, che tende a perdere importanza, come quello del lavoro operaio e della metallurgia, delle acciaierie, delle ciminiere, per cantarne con fierezza sofferta la forza e la maledizione prometeica. C’è qualcosa di maschile, di possente, di vero in questa scrittrice. Niente malizia e gioco mondano, tratti distintivi della Sagan, le cui opere fecero scandalo allora, e oggi sembrano impregnate di senso comune. Niente ironia, niente cinismo, ingredienti che tanti giovani attardati romanzieri credono ancora indispensabili. Al confronto di Silvia Avallone, tra i giovani che io ho letto, Valeria Parrella sembra elegiaca, flebile, Niccolò Ammaniti suona falso, tutto di testa.
Qui siamo di fronte a un talento naturale e originale, selvatico, capace di cogliere le contraddizioni del proprio tempo in una maniera ribelle e struggente. Ma questo libro carnale e castissimo, dove non c’è mai eros, mai lussuria, è grande soprattutto nella forza con cui identifica bellezza e amicizia come i due sentimenti decisivi, assoluti dell’adolescenza.

Ed è da amare nella sua verità, nel suo non sottrarsi al soffio vivificante della poesia.

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