Cultura e Spettacoli

La sfida postuma di Sgorlon al conformismo delle idee

I lettori di questo giornale ricorderanno la polemica sollevata da un mio articolo sull’autobiografia intellettuale di Carlo Sgorlon, La penna d’oro, in cui il grande scrittore friulano denunciava ostracismo, omissioni, incomprensioni a suo danno da parte di certa critica e della sua stessa terra, e aveva tutta l’aria di un bilancio e di un amaro testamento intellettuale. Ma il vero testamento di Carlo Sgorlon era di là da venire. Ora lo abbiamo. E, per uno come lui che aveva il genio della narrazione nel sangue, non poteva che prendere la forma di un romanzo, Il circolo Swedenborg (Mondadori, pagg. 294, euro 19).
In queste pagine ultime, pervase da una grazia leggera, serena, Carlo Sgorlon ha consegnato al Notaio Celeste la summa della sua visione del mondo, per spartirla come infinita eredità tra tutti i suoi lettori. Qui non c’è amarezza, tensione polemica, rivendicazione o rabbia. La narrazione, pur percorsa e innervata da idee sull’uomo, il cosmo, la società, la civiltà e l’Essere, scorre come acqua pura. Quell’acqua pura in cui per tanti anni ha nuotato controcorrente questo scrittore amato dai lettori e ignorato da un certo ceto intellettuale modaiolo e mafioso. Il protagonista, il cui nome è un concentrato di simboli, si chiama Ermete Lunati Eudoxios. Figlio naturale di un magnate greco e di una italiana, sin da ragazzo mostra un’indole capace di sogno, visioni, viaggi della mente nell’infinito. Tenente di vascello, naviga per il mondo. Poi l’immensa eredità paterna lo mette in grado di vivere, senza ostentazioni di sorta, la verità della sua passione per la filosofia e la teosofia. Con mille peripezie, ha trovato la donna della sua vita, Octavia, una rumena studiosa degli eretici bogomili. Compera un antico convento nel Nord Est dell’Italia e lì, insieme alla moglie, a una sensitiva di nome Sabina, al marito di lei, Gustav, divenuto produttore di vini pregiati, dà vita a un circolo intitolato al grande visionario svedese che man mano esprimerà una rivista, Arcana mundi, e una casa editrice omonima che pubblicherà soltanto libri di carattere sapienziale, religioso, metafisico, simbolico. Ermete supera le difficoltà materiali, gli attacchi, le aggressioni, con un atteggiamento flessibile, ricettivo, alato come l’antico dio di cui porta il nome. E, nei momenti culminanti di intense conversazioni filosofiche con Octavia, ricorre all’eros come al necessario, supremo punto d’arrivo di fronte al mistero delle cose. Non mancano nel libro le osservazioni sociali, la figura dell’operaio Vito Morgante è molto significativa, portatrice di una modernità oramai involuta e vacillante. Sgorlon lamenta la fine dell’artigianato, del lavoro fatto individualmente e con amore, sostituito dalla serialità cieca e di massa dell’industria. E lamenta la fine della mentalità contadina, fatta di ritualità e risparmio, sostituita dalla mentalità consumistica, fatta di disincanto e di debiti; e non manca di denunciare la fine dell’eros, risolto in sesso meccanico e divorzio e aborto facili. Tutti questi sono fattori di crisi di una civiltà come quella occidentale.
Ma il discorso va più nel profondo. Ermete e quelli della sua cerchia sono convinti che la crisi vera di un Occidente che loro amano sino a festeggiare l’anniversario della battaglia di Lepanto, sia il suo materialismo, il suo razionalismo, in sostanza il suo essersi fissato a un sapere aristotelico, tomistico e poi cartesiano e illuminista. Sino ad avere espulso da sé il senso del mistero, dell’infinito, del metafisico, del legame con le forze del cosmo, il senso della religione in quanto misticismo e della visione in quanto profezia. Nel romanzo, Sgorlon immagina che la rivista teosofica Arcana Mundi si scontri con quella materialista Helvetius, il cui abile, colto e manovriero direttore Ivan Predossi, anche una volta diventato direttore di un grande giornale nazionale, continua con tutti i mezzi la sua battaglia razionalista e politica contro Ermete, sino alla resa quando scopre l’inesauribilità non del suo argomentare, ma della sua ricchezza. L’unico valore di fronte a cui il pensiero di Predossi cede. Chi è adombrato nel direttore Predossi tra i direttori dei massimi quotidiani italiani di oggi? Io ne avrei in mente uno, ma non ho elementi per dire che è a lui che pensava Sgorlon.
In verità, il testamento di Sgorlon è il suo sogno di rinnovamento. Una cultura radicalmente d’opposizione che lanci nuovi comportamenti nei confronti della natura, nuovi stili sociali liberati da dogmi e conformismi, un nuovo misticismo sorretto dalla scienza e soprattutto dalla fisica contemporanea che ci offre una visione della materia e dell’energia che permette di superare la divisione statica tra fisico e metafisico, immanente e trascendente, materiale e spirituale. È toccante pensare che le pagine ultime di Carlo Sgorlon siano scritte sotto il segno di Gioacchino da Fiore.

E che assumano esse stesse un valore profetico, per chi sa ancora vederlo.

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