Cultura e Spettacoli

Il prof Tolkien in fuga dalla realtà per capirla meglio

Tolkien è l'autore forse più famoso del mondo, con 80 milioni di copie del Signore degli Anelli tradotte in oltre 50 lingue. E questo perché il senso mitico-simbolico e i valori archetipici dei suoi personaggi, degli eventi descritti, dei sentimenti che lo pervadono sono validi per tutte le culture del mondo e stanno nell'intimo dell'animo umano. E pensare che lui, il mite professore di Oxford che amava i draghi e si sentiva in tutto e per tutto un hobbit eccetto che per l'altezza, aveva pensato di scrivere la sua opera complessiva con uno scopo nobile e impossibile allo stesso tempo: fornire di una mitologia di riferimento la sua patria, la Gran Bretagna, che a differenza di altre nazioni europee a suo giudizio ne era priva. Tolkien ha scritto qualcosa che nella letteratura del '900 era assente da secoli. Una storia epica, che più epica non si può, le cui radici affondano nei grandi poemi dell'umanità, nelle epopee degli indoeuropei, nelle saghe nordiche, nella «materia di Bretagna» e nelle storie cavalleresche.
Ma c'era un altro intento: dare un volto, un nome, una fisicità, un retroterra culturale e sacro alle lingue che andava inventando sin da ragazzino, un «vizio» da nascondere anche quando era diventato un apprezzato filologo. Chi parlava il quenya e il sindarin? Che aspetto aveva? E poi quella parola: hobbit. Sul retro bianco del compito di uno dei suoi allievi aveva scribacchiato una frase: «In un buco nella terra viveva uno hobbit». Chi era? Come si presentava? Quando i suoi figli erano piccoli raccontò loro la storia di questo «mezzouomo», poi la mise per iscritto, poi il testo passò tramite un'amica nelle mani di una redattrice del'editore Unwin. Il libro uscì nel 1937, ottenne un bel successo e buone recensioni, e un premio come miglior libro per ragazzi. Ma ci fu anche chi, nell'ambiente accademico e fra la critica «militante», lo accusò di «fuga dalla realtà». Vecchia storia che si ripete ancora oggi. La sua conferenza del 1939 On fairy-stories (Sulle fiabe) fu la sua risposta con l'apologia della fiaba e della storia fantastica, la teorizzazione del Mondo Secondario di cui lo scrittore è una specie di demiurgo, un sotto-dio che ne crea tutti i particolari come Dio ha creato il Mondo Primario, il nostro, e la famosissima distinzione fra la condannabile «fuga del disertore» di fronte al nemico e l'encomiabile «evasione del prigioniero» dal carcere della Realtà che lo circonda.
Da tutto ciò si può capire anche il motivo per cui Tolkien e i suoi lavori siano sempre più apprezzati: la Realtà si fa vieppiù insopportabile e lui propone in contrasto con essa un Mondo Secondario in cui vigono valori alternativi non-materialistici, non-economicisti, decisamente anti-moderni e ancor oggi messi al bando. Essendo la sua opera, come venne definita, «la fiaba più lunga del mondo», ne ha tutte le caratteristiche e sviluppa tutte le funzioni di questo nobile genere letterario.
L'occasione del film che Peter Jackson ha tratto da Lo hobbit riporterà alla ribalta tutti gli altri libri del professore oxoniense, pur se non hanno bisogno di alcun «rilancio», vendendosi sempre regolarmente senza alcuna pubblicità. Inoltre la Bompiani ha quasi completato una operazione iniziata dieci anni fa quando pubblicò dopo trent'anni la prima vera revisione della storica traduzione rusconiana del 1970. Furono oltre 500 gli emendamenti apportati ne Il Signore degli Anelli a cura della Società Tolkieniana Italiana. Oggi, grazie alla nuova traduzione di Caterina Ciuferri e alla supervisione di Paolo Paron, fondatore della STI e suo attuale presidente onorario, anche per Lo hobbit è stata effettuata la medesima operazione, visto che la vecchia traduzione adelphiana del 1973 risultava ormai incongrua.
Peccato, lo si deve dire con rammarico, che questa operazione sia limitata al romanzo in sé, cioè al volume de Lo hobbit (pagg. 410, euro 11), è non anche al preziosissimo Lo hobbit annotato, a cura di Douglas Anderson (pagg. 420, euro 13) che comprende, oltre alla nuova traduzione della Ciuferri, un imponente e definitivo apparato critico che non è stato curato a dovere e contiene parecchi refusi (es. «Dogdson» per «Dodgson», «1948» per «1848»), imprecisioni di traduzione (es. «classificava» per «ordinava») e incongruenze di termini rispetto alla consolidata vulgata tolkieniana (ed. Sulle storie di fate per Sulle fiabe). Inoltre, il formato piccolo, rispetto a quello grande e ampio della precedente edizione dell'opera (1991) ne penalizza alquanto la lettura specie nelle didascalie e nelle note parecchio aumentate e valorizza poco le importanti immagini.


Comprensibile la decisione di offrire a un basso prezzo l'opera in occasione del film, ma è auspicabile che i due testi siano ripresentati nel formato conforme della collana che ospita tutte le altre opere del professore, elegante, ben curata, ottimamente leggibile, in modo da aver così un corpus unico.

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