Cultura e Spettacoli

Il diario d'una mamma Ercole nelle fatiche della vita normale

Ho letto il nuovo libro di Valeria Parrella, Tempo di imparare (Einaudi, pagg. 126, euro 17), maturando pagina dopo pagina una impressione sempre più forte, sino al finale, molto bello con la sua prospettiva rovesciata che va dal mare alla terra, dalla madre al figlio: che questo sia un libro essenzialmente lirico. Una voce che scandisce i verbi in prima persona e che quando dialoga lo fa soprattutto con una proiezione di se stessa. Una prosa tutta al presente, animata e come arcuata da una volontà introspettiva di scavo, nel linguaggio e nella psiche, nella norma e nella trasgressione della norma. Capitoli brevi, tagliati con il coltello, percorsi dal soffio di una bellezza sofferente e problematica, e persino con innesti, sia pure parsimoniosi, di miti e archetipi lontani.
Non c'è niente di romanzesco, in queste pagine. Nessuna avventura esterna alla voce narrante, nessuna architettura sinfonica, nessuna fuga verso il meraviglioso. Non c'è il tempo che passa, non ci sono i crocevia del destino. I personaggi secondari hanno un loro strano andare e venire, come per esempio Ariel, che confesso di aver preso all'inizio per un angelo custode (e magari lo è), tanto è immateriale. Certamente, ci sono pagine in cui la realtà concreta incombe, in cui l'autrice mostra quella grinta tutta femminile nell'affrontare il sociale che credo le abbia procurato tanti consensi nell'ambiente culturale italiano. In una sintesi molto riuscita è descritta la coda al mal funzionante sportello dell'ASL, con la vecchietta in pantofole e con la dentiera, il giovane grassone che si tasta i genitali mentre il padre tenta disperatamente e inutilmente di impedirglielo, l'uomo a metà sulla sedie a rotelle, intero dal bacino in su e senza niente al di sotto. Ed è descritta la polemica sul computer che non funziona e sull'indolenza equamente spartita tra un funzionario e un dirigente della stessa ASL, la vergogna dell'attesa di 78 giorni per una visita neurologica infantile.
C'è il tema della scuola da scegliere per il bimbo disabile, con la madre che fonda la propria scelta sulla stima per insegnanti mature che hanno dato prova di combattività e di resistenza, sino a dormire in sacco a pelo nelle aule, contro disposizioni burocratiche che volevano la demolizione della scuola stessa. C'è il racconto dell'incontro tra i professori e i genitori dei bambini disabili, la provocazione della madre che rivendica la propria esperienza vitale a contatto del figlio e che propone, ai professori, di invertire le parti, di essere loro a prendere appunti dalle sue parole.
Tutto questo mi fa pensare a cosa potrebbe fare l'autrice se scegliesse la strada del realismo. Ma arrivo a pagina 63 e leggo: «Invece voi arrivate, figli, frecce incomprensibili verso chissà quale bersaglio, e nel vostro tragitto, come attraverso le dodici asce allineate che infilò Odisseo nella lunga sala, ci costringete a guardare dove forse non avremmo guardato mai». Qui, sembra che sia un'eroina tragica a parlare. E il mistero della vita sconvolge ogni certezza sociologica, ogni verità scientifica, e rende vane le domande poste inutilmente al neurologo Oliver Sacks o affettuosamente al linguista Noam Chomsky. Sui figli che arrivano come «frecce incomprensibili verso chissà quale bersaglio» potrebbe forse essere interpellato Dylan Thomas, il poeta citato nell'epigrafe. E con lui tutta la grande poesia.
Il tema della disabilità viene affrontato a ciglio asciutto. Le fatiche di una madre assomigliano alle dodici fatiche di Ercole. Sono ancora più dure, e forse richiedono una forza di altro tipo, femminile e non meno eroica. L'immagine del dodicenne disabile insicuro del suo passo per mano al nonno molto anziano ma deciso, sovverte quella di Enea e Anchise. Qui è Anchise a fare da guida, ad accollarsi i pericoli del cammino. Sembra che il mito tenti l'autrice senza però coinvolgerla nel suo disporsi come narrazione, come racconto delle origini. Ci sono tracce, frammenti, che spesso balenano nei nomi, Cassandra, Thor, Ifigenia, e in richiami come a quelli a Priamo e ad Achille. La sostanza di un libro come questo è l'affondo nell'io. Lirico, dicevo. Ma senza voli o ornamenti. Un libro in cui una madre lavora per imparare dal figlio disabile, dal piccolo Arturo seguito passo passo nella sua strada, che, se la bellezza è sofferenza, il segreto di ogni vita ben spesa è quello di trasformare la sofferenza in bellezza.
È il senso della poesia.

E il merito di questo libro è ricordarcelo.

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