Cultura e Spettacoli

Quel poeta-soldato che racconta l'Irak

Il cecchino Chris Kyle ispirò Eastwood Il diario di guerra di Powers è giudicato un capolavoro. Ora Fine missione del marine Phil Klay, un caso negli Usa, esce in Italia

Quel poeta-soldato che racconta l'Irak

«L'EOD disinnescava le bombe. Il SSTP curava i feriti. Il PRP trattava i cadaveri. Gli o8 sparavano DPCIM. La MAW forniva CAS. Gli o3 pattugliavano le MSR. Io e PFC gestivamo i soldi». È il primo paragrafo di un racconto di Phil Klay intitolato OIF , incluso nella raccolta Fine Missione (Einaudi, pagg. 240, euro 19). Naturalmente, senza l'apposito glossario, non potete capire nulla, a meno che non siate stati nel corpo dei marines, in missione in Irak. Tranquilli, l'effetto è voluto, ed è limitato a questo passaggio. Che illustra, in modo esemplare, quanto sia difficile da metabolizzare e comprendere la guerra. Anche per Phil Klay, veterano un tempo (2007-2008) in servizio nella provincia di Anbar, quella di Ramadi, la città in queste settimane al centro di feroci combattimenti tra l'Isis e ciò che resta dell'esercito iracheno. Nel 2014, il suo libro ha vinto il National Book Award ed è stato uno dei cinque titoli di narrativa dell'anno per il New York Times . Tra i suoi fan, per quel che conta, può vantare anche il comandante in capo Barack Obama.

Tra gli ex militari c'è chi ammette, off the records , che uccidere il nemico sia una esperienza se non proprio divertente almeno estremamente appagante. Al punto da creare una certa dipendenza. Nel libro di Klay le cose sono un po' più complicate. Solo un ufficiale, in uno dei racconti, riconosce il piacere sottile di uccidere gli insorti iracheni servendosi di un pugnale e non del solito fucile. Sfumature che rallegrano una giornata di ordinari combattimenti. Chiariamo: nel libro di Klay non c'è alcun compiacimento. Anzi. C'è la confusione della battaglia, lo choc del primo proiettile andato a segno, il cinismo e il coraggio necessari per sopravvivere, l'orgoglio e il disgusto di aver compiuto il proprio dovere, la burocrazia che riesce a rendere ridicola anche una tragedia, l'inadeguatezza di una classe politica incapace di capire i processi storici che ha contribuito a innescare, lo spaesamento di chi rientra negli Usa senza rientrare nella vita normale. C'è anche la formula matematica della guerra, in percentuali. Cinquanta per cento, noia e attesa. Quarantanove per cento, terrore e allerta costante. Uno per cento, panico assoluto. Il tutto da viversi al contempo, spesso rinchiusi in una scatola (leggi: MRAP; rileggi: un blindato) che potrebbe saltare in aria da un momento all'altro.

Il primo racconto di Fine missione , che giustamente dà il titolo al libro, è un capolavoro. C'è questo reduce, incamminatosi sulla via per diventare un disadattato permanente. È ossessionato dal ricordo dei cani iracheni, a cui sparava per evitare che straziassero i cadaveri (chi ha letto Insciallah di Oriana Fallaci sa di cosa stiamo parlando, c'è una scena quasi identica). Sua moglie, al ritorno in patria, l'ha accolto con amore. Ma c'è qualcosa che non va. Al reduce che cammina per le vie dello shopping viene voglia di appiattirsi contro il muro per schivare raffiche immaginarie. Gli altri, i civili, invece sono tranquilli, ignorano cosa sia il codice arancione («state in allarme»), sono tipi da codice bianco («rilassatevi pure»). A casa, oltre alla moglie, c'è il vecchio cane Vicar, malatissimo. Iniezione letale dal veterinario o fucilata in prima persona? Il reduce opta per la fucilata. Un gesto d'amore? Una imperiosa necessità di rivivere in piccolo i sentimenti della guerra? Potrebbe trattarsi dell'una o dell'altra cosa. Di certo il reduce spara al cane come avrebbe sparato a un insorto. Due colpi al corpo in rapida successione, per spappolare gli organi, e uno alla testa, per completare l'opera. Per non fare soffrire il cane? Resta il dubbio, in fondo il titolo potrebbe essere Fine missione: mai .

La guerra in Irak ha prodotto una larga messe di opere. Saggistica, memorialistica, film e narrativa, firmata anche da soldati-poeti. Phil Klay appartiene a quest'ultima categoria, come il Kevin Powers di Yellow Birds (Einaudi, 2013) o come la coppia formata da Chris Robinson (poeta) e Gavin Kovite (soldato, a Bagdad nel 2004-2005) autori di War of the Encyclopaedists (Scribner), appena uscito negli Stati Uniti e accolto da recensioni entusiastiche. Nella prosa di Klay, che ha spesso indicato come maestro lo scrittore irlandese (statunitense d'adozione) Colum McCann (recuperate La sua danza , Tropea, 2003), convivono senza problemi il postmoderno Di cosa parliamo quando parliamo di Anne Frank di Nathan Englander (Einaudi, 2012), il classico sul Vietnam Matterhorn (Rizzoli, 2011) di Karl Marlantes e il romanzo psicologico Trauma (Bompiani, 2009) di Patrick McGrath.

Riavvolgiamo per un attimo il nastro. Nel 2014, il caso letterario è stato Phil Klay, vincitore del National Book Award. Nello stesso anno, la pellicola di maggior successo al botteghino è stata American Sniper di Clint Eastwood, liberamente tratta dalle memorie di Chris Kyle, tiratore scelto dei Navy Seals in Irak (in Italia edito da Mondadori). Il film, pur bello, mancava della profondità di Flags Of Our Fathers e Lettere da Iwo Jima , i capolavori di Eastwood sulla Seconda guerra mondiale. O almeno così hanno sentenziato i critici. Fatto sta che gli Stati Uniti ragionano sulla storia a caldo, mentre il dramma non si è ancora sopito e con pochissima ideologia di contorno. I risultati talvolta sono altissimi come in Fine missione . E forse questa caratteristica testimonia la vitalità, anche tormentata, e l'orgoglio, mai in discussione, di una grande nazione come gli Usa.

Abbiamo già evocato Insciallah (Rizzoli, 1990). Il romanzo di Oriana Fallaci è un'impresa enorme. C'è il racconto di una guerra mediorientale (Libano) in cui gli schieramenti sono confusi. C'è la crudeltà dell'assedio, la follia dello scontro fratricida, la strage dei civili. Insciallah è il ritratto (anche linguistico) dell'Italia disegnato attraverso le vicende dei nostri soldati provenienti da ogni regione e da ogni ceto sociale. Preponderante è il tema della guerra come luogo in cui escono senza mediazioni e senza ipocrisie i valori ultimi: l'amore, l'amicizia, la pietà, la vendetta, il bene, il male. Anche noi, dunque, abbiamo avuto il nostro romanzo di guerra.

Ma tendiamo a dimenticarlo.

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