Politica

Friuli, il «piccolo Bangladesh» dove la convivenza va in crisi

A Monfalcone classi di soli stranieri, bengalese il 10% dei negozi. Allarme dopo il tentato stupro a una donna incinta

Lodovica BulianMilano Il momento più difficile è quello estivo, quando la calura solleva uno sciame bollente di odori multietnici che inonda le narici, proveniente dai fornelli dei vecchi condomini del centro storico popolati ormai solo da famiglie bengalesi strizzate in pochi metri quadrati. E quando la centralissima piazza della Repubblica al calar della sera o nell'arsura pomeridiana si popola di gruppi di stranieri che dormono all'aperto e bivaccano sui marciapiedi. Anche nel resto dell'anno il modello di integrazione rivendicato dall'amministrazione comunale vacilla, costantemente in bilico tra due culture, nella cittadina del Nord Italia ribattezzata il «sobborgo di Calcutta». Monfalcone, provincia di Gorizia, 27mila abitanti, 5mila stranieri per 89 nazionalità diverse: nella città-cantiere che si affaccia sul golfo di Panzano, dove Fincantieri progetta e costruisce i suoi gioielli da crociera, la comunità del Bangladesh è la più numerosa, con oltre 3mila persone, seguita da Romania e da altri ceppi balcanici.Attratti in massa sul territorio alla fine degli anni Novanta dal maxi indotto delle aziende appaltatrici del colosso navale assetate di manodopera, i bangla, così vengono chiamati i bengalesi di Monfalcone, hanno innescato la metamorfosi di un tessuto sociale che oggi riconsegna profonde distanze culturali, linguistiche e religiose riunite sotto la bandiera di un multiculturalismo fragile. Capace di vacillare quando, come qualche sera fa, accade che un bengalese residente da ormai 10 anni nel comune tenti di violentare una donna all'ottavo mese di gravidanza, mentre torna a casa poco prima dell'ora di cena. È successo dopo una serie di episodi di molestie sessuali che si sono susseguiti nei mesi ai danni di altre giovani, forse a opera dello stesso squilibrato. Una macchia nell'indole pacifica dei bangla, ma non di certo il motivo scatenante della silenziosa fuga degli italiani verso i comuni limitrofi. La ragione sta in un'intera «città che ha mutato essenza e fisionomia - spiega il capogruppo della Lega, Federico Razzini -. Le divisioni sociali non sono colpa degli stranieri ma di politiche inefficaci. Certo ci sono delle differenze incompatibili con la nostra società, come la visione della donna nella cultura islamica».Succede così che anche gli esempi virtuosi di dialogo, come quelli dell'imam di Monfalcone Abdelmajid Kinani divenuto il simbolo della condanna dei musulmani ai massacri di Parigi, rischino di annacquare nell'alienazione e nel senso di «insicurezza» simile a quello che si respira in certi quartieri metropolitani, dove gli italiani si sentono stranieri in terra natia. Lo stesso che capita di riconoscere, a volte, anche in questa città dai due volti, dove sono nate classi della scuola elementare composte al 100 per cento da bimbi stranieri, e da cui alcune famiglie monfalconesi hanno deciso di ritirare i propri figli. Sbagliato parlare di «razzismo», dicono. Semmai, la preoccupazione è quella di «un'integrazione al contrario», con il pericolo che la maggioranza degli allievi parli nella lingua del Paese d'origine all'interno di un «nucleo massiccio e compatto». Un fenomeno ben evidente nelle tante donne e madri bengalesi che partoriscono a Monfalcone, lo scorso settembre sono state di più di quelle italiane, ma i cui bambini spesso non parlano bene l'italiano.E se i bangla sono divenuti nel tempo anche i proprietari del 10 per cento di esercizi commerciali come propaggini di Dacca, la loro capitale, il Comune cerca di combattere la chiusura culturale con iniziative di mediazione e integrazione: «Sappiamo che ci sono delle difficoltà - dice il sindaco, Silvia Altran (Pd) - ed è inevitabile con un tasso così alto di stranieri, ma siamo una città che ha una lunga tradizione di integrazione e continuiamo a lavorare.

Ma è anche un percorso che costa - rimarca - e non è facile da sostenere in questi anni di crisi».

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