Rio 2016

Olimpiadi di Rio come Città del Messico, pugni al cielo per protesta

Al termine della maratona alle Olimpiadi di Rio 2016, la medaglia di bronzo Feiysa Lilesa ha alzato le braccia al cielo con i polsi incrociati per manifestare contro il governo di Addis Abeba e per chiedere più diritti per il popolo Oromo

Olimpiadi di Rio come Città del Messico, pugni al cielo per protesta

Corre l'anno 1968, Città del Messico, Olimpiadi, e sul podio dei 200 metri Tommy Smith e Jhon Carlos, rispettivamente oro e bronzo, al momento dell'inno a stelle e strisce salgono sul podio scalzi, piegano la testa e alzano al cielo il pugno con il guanto nero manifestando così per i diritti degli afroamericani. Insieme a loro, su quel podio immortalato in una delle foto più celebri della storia, c'è anche Peter Norman, australiano e anche lui aderisce alla protesta dei due colelghi velocisti indossando la coccarda dell'Olympic project for human rights. Passano 48 anni e di nuovo ai giochi olimpici, dei pugni si sono alzati al cielo per manifestare per i diritti umani.

Ieri a Rio de Janeiro, Feiysa Lilesa, atleta etiope di etnia oromo, è arrivato secondo alla maratona maschile e una volta sulla linea del traguardo ha alzato entrambe le braccia al cielo, incrociando i polsi, a simboleggiare le catene e le manette (video).

Il perchè del gesto? Perchè in Etiopia gli Oromo, insieme agli Ahmara stanno protestando contro il governo di Addis Abeba per chiedere maggiori diritti e opporsi alla confisca delle terre. Proteste a cui ha fatto seguito una repressione assoluta da parte del governo centrale che ha sparato sulla folla durante le manifestazioni e ha incarcerato numerosi oppositori politici. (Etiopia sull'orlo della guerra civile)

L'atleta, che ha replicato il gesto anche al momento della premiazione, poi ha parlato davanti alle telecamere spiegando che il governo di Addis Abeba ha ucciso, incarcerato molti oromo ed espropriato la terra della sua gente. Ha aggiunto che i suoi parenti sono in prigione e che il gesto è stato fatto per denunciare in mondo visione ciò che sta subendo il suo popolo. Interrogato poi su quale destino gli verrà riservato una volta in patria, il maratoneta ha concluso dicendo: ''Per quanto mi riguarda se torno in patria, rischio la vita. E se non vengo ucciso, potrei finire in prigione.

Non ho ancora deciso cosa fare, ma forse andrò direttamente in un altro Paese”.

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