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"Ora che si fa?". Soltanto Dio può rispondere

La domanda del vescovo di Ascoli Piceno è quella di tutti davanti alle tragedie

"Ora che si fa?". Soltanto Dio può rispondere

«E adesso che si fa?». Occhi pieni di una dolorosa perplessità, petti ancora ansimanti per il pianto e la fatica. Nessuno pensava, nel momento della tragedia, che sarebbe venuto anche questo momento, quando i primi bilanci illuminano con la loro luce vivida una scena che appartiene già al passato, mentre un nuovo presente incalza.

Abbiamo pianto i morti, li abbiamo messi in fila, siamo già ai funerali, il lutto diventa anche memoria, la tragedia continua ma al tempo stesso diventa passato, ricordo. Restano le macerie, gli impegni solenni, la buona volontà di molti, le polemiche in buona e in mala fede. E restano, soprattutto, le domande.

«E adesso che si fa?». In tanti, dice il vescovo di Ascoli Piceno, monsignor Giovanni d'Ercole, gli hanno rivolto questa domanda, che è la stessa che lui tante volte, in questi giorni, ha rivolto a Dio: «E adesso, Signore, che si fa?».

L'Italia è già piena di persone che hanno le idee chiarissime sul da farsi, ma la gente ha bisogno d'altro. Vanno benissimo le promesse, gli stanziamenti, i programmi di ricostruzione, va benissimo ricominciare dalla scuola, ma la domanda viaggia da sé, ha una vita propria: e adesso che si fa?

Il fatto è che a una domanda come questa - inevitabile dopo ogni tragedia, dopo ogni istante in cui tutta la nostra vita sembra essersi ridotta in cenere - ciascuno deve dare la propria personale risposta. Anche i programmi più perfetti, anche gli stanziamenti più faraonici (ci fossero...) non possono sostituire la necessità di una risposta personale.

Perché ciascuno dei quasi trecento morti era figlio, madre, padre, fratello, sorella di qualcuno che è vivo, e sono queste persone vive - vive ma con l'angoscia nel cuore - a dover rispondere. E adesso, che si fa?

Non è una domanda «pratica», anzi, è la più profonda delle domande. Abbiamo realizzato che ci siamo ancora, che vivere vale la pena, che il mondo è meraviglioso, ma non sappiamo più cosa fare. La vita è un canto, ma non sappiamo più cosa cantare.

Perciò è giusto che anche l'uomo che guida la diocesi in cui è avvenuto il disastro non faccia mancare a Dio questa stessa domanda, perché si parla a Dio come si parla a una persona in carne e ossa, uno che ascolta, che ha un pensiero, che sicuramente non voleva questa tragedia, ma che non ha potuto impedirla, perlomeno dal giorno in cui decise di morire in croce gridando Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?

Non voglio certo farmi interprete di questo, che forse è il mistero più fitto di tutta l'umana esistenza. Colpisce tuttavia il fatto che la più ferita, la più povera, la più smarrita delle domande umane, nata nel dolore e nelle lacrime, «e adesso che si fa?», si presenti non nella forma di un lamento ma piuttosto di uno scatto, di una mossa che appartiene tanto all'anima quanto al corpo, alle braccia, alle mani.

Non è necessario essere credenti per capire queste cose. In certe circostanze è chiaro a tutti che l'azione è più grande della rassegnazione. Ci vuole però una guida, qualcuno che ci indichi da che parte andare: allora, che si fa? Siamo pronti a muoverci, dove andiamo?

È la domanda di un uomo già in piedi, non più a terra e nemmeno seduto. È la domanda di chi è già ripartito, e ci chiede (a Dio ma anche a ciascuno di noi) di fare fino in fondo la nostra parte.

Una cosa (parlo della nostra parte) che, occorre dirlo, in Italia non facciamo sempre.

Luca Doninelli

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