Cultura e Spettacoli

E Soldati capì che la Nazionale ha gli stessi guai del Paese-Italia

Per Pasolini il gol era folgorazione, come la poesia. Arpino (juventino) onorò il Grande Toro. Ma il migliore fu Brera

E Soldati capì che la Nazionale ha gli stessi guai del Paese-Italia

Non so oggi, che li vedo tutti chinati sulle loro play-station: ma una volta non c'era ragazzino che non giocasse al calcio nel suo quartiere e non sognasse di diventare come i campioni della sua squadra del cuore. Personalmente, negato a ogni sport, abbandonai prestissimo il campetto di calcio. E anche il mio moderato tifo infantile per il Milan si spense. Nel 1954, a nove anni, restai così sconvolto dalla drammatica radiocronaca della partita in cui la Germania vinse la finale dei Mondiali contro l'Ungheria che ancora oggi, dopo più di mezzo secolo, provo una irrazionale ammirazione per i giocatori tedeschi, ogni volta che li vedo scendere in campo. In seguito, per una breve stagione, seguii le imprese del Cagliari di Gigi Riva, il Rombo di tuono, l'Achille glorioso che sfidava gli Agamennone delle compagini più ricche e titolate. Altro di calcio non so.

Per questo ho trovato istruttivo il libro di Antonio Donadio, Calcio d'autore, da Umberto Saba a Gianni Brera: il football degli scrittori (Editrice La scuola, pagg. 153, euro 11). Per esempio, non sapevo che Eugenio Montale, una volta fatto senatore a vita, annunciò spiritosamente a Maria Luisa Spaziani che avrebbe avanzato una proposta di legge per rendere lecito il gioco del calcio soltanto 16 giorni all'anno: quanti ne prendeva lui di ferie andando all'estero, dove il baccano sportivo non gli sarebbe giunto all'orecchio. E non sapevo che Pasolini, anche in questo all'opposto del Nobel genovese, dal quale lo divisero aspre polemiche letterarie, amasse invece a tal punto il gioco del pallone da scrivere che «il goal è ineluttabilità, folgorazione, stupore, irreversibilità. Proprio come la parola poetica». Anche Alfonso Gatto, che scrisse di calcio proprio su queste pagine, lo pensava: «Il calcio è come la poesia, un gioco che vale la vita». E anche un'altra grande firma del Giornale, Giovanni Arpino: «il gioco di palla, la sferomachia, è sempre stato poetico». Arpino è anche autore di bellissimi versi in piemontese («Russ cume el sang/ fort cum el Barbera/ vöj ricordete adess, me grand Türin») dove, lui juventino, onora i giocatori del Toro che trovarono tutti la morte nell'incidente aereo del 1949, per i quali Mario Luzi, solenne, parla di «squadra/ anche contro la morte, ancora squadra».

Ma al di là dell'epica, c'è la quotidianità del calcio. E il poeta che seppe meglio di tutti descriverla è Umberto Saba nelle cinque poesie che le dedicò. Versi piani, dolcemente descrittivi, dove anche un minimo di enfasi si manifesta con leggerezza: «La vostra gloria, undici ragazzi/ come un fiume d'amore orna Trieste». Ma soprattutto nella poesia dedicata ai due portieri Saba raggiunge risultati memorabili: a quello «caduto alla difesa/ ultima vana» con la faccia nascosta a terra si contrappone l'altro, quello della rete inviolata, la cui «gioia si fa una capriola» con la quale non potrebbe dire meglio che anche lui è parte della festa. I poeti lombardi sono tutti interisti. Dal capostipite Vittorio Sereni, che descrive i registri cromatici di un match Inter-Juve, a Giovanni Raboni, che racconta di andare prima allo stadio per il gusto di assistere alla gara «delle squadre chiamate primavera», sino a Maurizio Cucchi, che in una poesia intitolata '53 prende la partita di calcio come uno struggente, necessario pretesto per ricordare con commozione la sua infanzia mano nella mano del padre, «l'immenso orgoglio» del suo cuore.

Per trovare un poeta laziale bisogna arrivare a Valentino Zeichen: mi ricordo bene il suo essere tifoso sopra il rigo, tanto da diventare consapevole, divertita parodia di se stesso. Dedicò una poesia a Bruno Giordano, eroe, gladiatore di una partita Lazio-Juventus finita tre a zero, cui fu riservata una ovazione che nemmeno gli imperatori si sognavano. Tra gli scrittori che riservarono attenzioni al calcio, c'è Mario Soldati che ultrasettantenne seguì e raccontò magistralmente i Mondiali di Spagna del 1982, vinti dall'Italia. Soldati, che, posso dirlo con cognizione di causa in seguito a tante nostre conversazioni, era molto più serio di quanto volesse apparire, capì il parallelismo tra i guai dell'Italia, mafia, camorra, «soperchierie romane» (come oggi, insomma) dovuti alla mancanza di senso dello Stato e i guai di una squadra dovuti al prevalere dell'individualismo e alla mancanza del gioco collettivo.

Da un libro così non poteva mancare Gianni Brera, parente letterario di Gadda secondo Umberto Eco, gran lombardo anche lui, aedo del gioco del pallone, titolare di una prosa espressionistica in cui presero corpo termini entrati ormai nell'uso comune, «melina», «incornare», «goleador»: e inventore di quei due soprannomi, Abatino per Rivera, Rombo di tuono per Riva, che sembrano voler contrapporre, anche nel calcio, eccesso di civiltà e potenza di natura: con una non celata propensione per quest'ultima.

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