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Morire per il segretario? Il Pd non ci sta e tira il freno

Franceschini tiene i contatti con Renzi per convincerlo a non rischiare tutto nelle urne. Ma il leader tentenna

Morire per il segretario? Il Pd non ci sta e tira il freno

La situazione s'ingarbuglia sempre di più. L'azzardo senza rete di Matteo Renzi comincia a delinearsi in tutta la pericolosità per il Paese e, nel suo piccolo, per il Pd messo davanti a un nodo gordiano. Seguirlo nel baratro o ribellarsi. Nessuna delle due prospettive entusiasma, specie dopo la mortificante Direzione dell'altroieri. Dimostrazione plastica di quanto poco il leader consideri il proprio partito. Sempre che ne esista ancora uno.

Da sinistra si mette il dito nella piaga. «Renzi sa benissimo che un governo con tutte le forze politiche non nascerà, per ricomporre le fratture ci vuole tempo e confronto. In ogni caso, è il Pd che ha spaccato il Paese, è il Pd che deve assumersi l'onere di una proposta responsabile», scrivono i capigruppo di Si, Scotto e De Petris. In attesa di capire fin dove voglia tirare la corda Coriolano di Rignano - se vuol essere richiamato per gestire una lunga fase pre-elettorale (ipotesi che, al di là delle chiacchiere, resta la più probabile anche per il Quirinale); indicare un proprio uomo (Delrio); restare sulla riva di un esecutivo istituzionale -, il partito comincia a dare segni di risveglio dall'incubo. Intensa è l'attività di relazione dei due alleati di riferimento della maggioranza renziana: Andrea Orlando e (soprattutto) Dario Franceschini. Attraverso figure di collegamento, quali Damiano, Pinotti, Martina e il sempiterno Zanda, si cerca di recuperare i rapporti anche con la vecchia e bistrattata minoranza bersaniana (qualcuno dice arrivando fino ai dalemiani, se non proprio al rinfrancato leader Ex-Maximo). Non è facile, perché in questi mesi di ebbrezza e stordimento non sono mancati sgarbi e ruggini, anche personali, prodotte dallo stil novo. Ma un ribaltone che miri al dopo-Renzi necessita pur sempre di un congresso, e non tira aria. Il ramoscello di pace di Roberto Speranza al segretario («Resta e andiamo avanti») si è tramutato in un gioco di melina che, al momento, raggruppa la maggioranza schiacciante del Pd: dal Capo dello Stato fino a Bersani, da Zanda a Franceschini, che pure continua a sentire Renzi per telefono, in un'opera di mediazione a 360 gradi che sarà molto utile anche in futuro. Condivisione di linea politica (no alle elezioni, riconciliamoci prima con il nostro elettorato) che pare aver infastidito Matteo al punto da fargli balenare l'idea dell'azzardo finale: un plateale abbandono «da destra» del Pd, una specie di «predellino» con chiamata alle armi per far nascere un partito a sua immagine e somiglianza. Dentro i pasdaràn, e magari anche Alfano, ma totalmente votato a convogliare l'elettorato populista verso una sfida tra il «nuovo» e il «vecchio» (grillini ivi compresi). Qualche sondaggista avrebbe confortato Renzi ventilando potenzialità elettorale addirittura superiore a quella del Pd, potendo pescare a piene mani ovunque.

Come di fronte a una pietanza succulenta che gronda trigliceridi, Renzi tentenna. Mollare il Pd è puntata rischiosissima, specie per un «antipatico» com'è diventato lui. Che non è riuscito neppure a far decollare un altro progetto, quello della comoda «zattera» post-scissione per la sinistra interna del Pd, organizzata da Pisapia e destinata ad essere «alleato naturale» del Pd con tanto di timbro del Nazareno. Operazione sconfessata da tutti coloro che qualche voto a sinistra conservano, a cominciare da Nichi Vendola: «Proposta campata in aria», ha detto.

Matteo è accerchiato, prender un po' di tempo per ragionare farebbe bene anche a lui.

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