Cultura e Spettacoli

"La provincia americana è casa mia e la racconto come fosse una musica"

L'autore parla del nuovo romanzo "Io sono Dot". E del legame con il Texas dell'infanzia

"La provincia americana è casa mia e la racconto come fosse una musica"

Un che di leggendario accompagna Joe R. Lansdale da quando i suoi primi libri sono stati tradotti in italiano. Pochi avrebbero pronosticato una crescita di popolarità esponenziale come quella che, di anno in anno, vede allargarsi la schiera di suoi fan devoti, soprattutto da noi. Non, però, il suo attuale editore italiano, Einaudi, il quale peraltro ha investito tanto su di lui e una quindicina di anni fa, dopo averlo invitato al Salone del Libro di Torino, si ritrovò a corto di copie, con schiere di lettori costretti a tornarsene a casa senza l'agognato libro autografato: un successo stupefacente.

Lei è instancabile. Oggi esce in Italia il suo nuovo romanzo, Io sono Dot...

«È la storia della diciassettenne Dorothy Dot Sherman, che vive in una casa mobile insieme alla mamma, alla nonna e al fratellino, nel Texas Orientale. Suo padre se n'è andato quando lei aveva dodici anni e lei ora lavora in una tavola calda in cui tutte le cameriere servono i clienti muovendosi su roller skate. Quando sua sorella si presenta da lei piena di lividi per le botte che le ha inferto il marito sbronzo, Dot prende la situazione in mano e... il resto lo scoprirete leggendo il libro».

Il suo stile narrativo ha un ritmo peculiare, quasi musicale...

«Sì, ho un approccio musicale alla scrittura. Devo sentire le voci nella mia testa e la prosa deve avere una sua musicalità. La lingua deve trasformarsi in melodia. Ovviamente, non c'è una regola fissa, ma, quando la mia scrittura assume un certo ritmo nella mia testa, so di essere sulla strada giusta. A quel punto, inizio a scrivere e la storia scorre come un brano musicale. Posso pure improvvisare, come succede nel jazz, e non attenermi a schemi convenzionali, ma stravolgerli senza peraltro renderli irriconoscibili e al tempo stesso trasformandoli in qualcosa d'altro».

Uno degli aspetti dell'America che mi affascinano maggiormente è il sapore stantio della provincia. Come spiega quest'atmosfera nostalgica?

«In parte dipende dall'isolamento, ma oggi è difficile essere del tutto isolati. È uno stile di vita che piace a molti. Piace anche a me. Come qualsiasi altro luogo, ha un lato oscuro e un lato più luminoso ed entrambi permeano i miei romanzi. Adoro la provincia americana, comprese le sue imperfezioni. Non vivrei in nessun altro posto».

I suoi genitori hanno vissuto il dramma della Grande Depressione. Per questo molte delle sue storie si svolgono in quegli anni?

«Hanno sofferto e io sono cresciuto ascoltando tante storie su quel periodo. E con la predisposizione a non gettare mai via nulla, fosse un elastico o un avanzo di cibo. Quelle storie sono state la base dei miei romanzi in cui a fare da sfondo è la Grande Depressione».

Suo padre era un uomo del Sud a tutto tondo, con forti pregiudizi razziali, che però metteva la giustizia un gradino sopra la razza. Negli anni della sua giovinezza nel Texas Orientale, era un atteggiamento diffuso?

«Era l'atteggiamento di mio padre. Però, nel luogo in cui sono cresciuto di problemi razziali ce n'erano in abbondanza. E c'era tanto odio. Qualche problema sussiste ancora, ma non è nulla di paragonabile alla situazione di allora. Mio padre era un uomo retto. Uno dei primi ricordi della mia infanzia è il mio primo cagnolino. Gli volevo un mondo di bene. Un giorno, il mio cane scorrazzò tra le aiuole fiorite del vicino, che lo prese a bastonate, lo trascinò sull'erba e lo lanciò nel torrente. Fu una scena terribile. Ero disperato, in lacrime. Corsi a casa a chiamare mio padre, che per passione e per arrotondare lo stipendio tirava di box nelle fiere itineranti. Lui non perse tempo. Andò dal vicino e, quando quello si affacciò dalla porta di casa, gliele suonò di santa ragione, lo prese per i piedi, trascinandolo sulle aiuole fiorite per poi lanciarlo nel torrente. Raccogliemmo il cagnolino, malconcio ma vivo. Giustizia era stata fatta. Per il cane e per me. Una lezione che non ho mai dimenticato».

Nel suo universo letterario che include fantascienza, horror, thriller, romanzi di formazione, western, ecc, c'è sempre uno sguardo sulla società americana. Si tratta di una scelta o è qualcosa che viene da sé?

«Ho sempre voluto mettere società e cultura al centro dei miei romanzi, ma non ho mai realmente capito come farlo. Così, ho lasciato perdere. Quando iniziai a scrivere, le due cose saltarono fuori spontaneamente. Credo sia meglio lasciare che le cose facciano il loro corso naturale, almeno nel mio caso. Io sono fatto così. Tematiche sociali e culturali si esprimono da sole in larga parte di ciò che scrivo, anche se non in tutto».

So che il giorno in cui sua madre le regalò la sua prima macchina per scrivere resta un ricordo speciale, per lei. Ce ne può parlare?

«Ero al settimo cielo. Avevo iniziato a scrivere da piccolo, ma mia madre, quando fui adolescente, mi regalò una vecchia macchina Underwood. Da quel momento mi sentii uno scrittore a tutti gli effetti. Era durissima, quindi non la usai tanto, ma fu importantissima perché in seguito avrei usato altre macchine per scrivere, manuali ed elettriche, per poi passare al computer. Quella macchina per scrivere significò tanto per me: la usai soprattutto per appunti e lettere, dato che i tasti erano durissimi, ma per me fu la consacrazione come scrittore.

Finché mia moglie non me ne regalò un'altra, a distanza di molti anni».

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