Cronaca locale

Schianto sul Pirellone: incidente o suicidio? Un giallo lungo 15 anni

La Procura archiviò tutto senza colpevoli Ma Fasulo diceva: mi lancio sul grattacielo

Schianto sul Pirellone: incidente o suicidio? Un giallo lungo 15 anni

Un po' di ritualità, qualche inevitabile polemica: il quindicesimo anniversario dello schianto di Luigi Fasulo e del suo Commander contro il ventiseiesimo piano del Pirellone scivola via così, nell'inevitabile indifferenza di una città in tutt'altro indaffarata. Eppure il fattaccio del 18 aprile 2002 andrebbe in qualche modo studiato e tenuto vivo: se non altro perché raramente accade che la verità giudiziaria su un eclatante fatto di cronaca si distacchi così platealmente dalla percezione della gente comune.

C'è qualcuno, tra i tanti milanesi che in quel pomeriggio di primavera ricevettero la sconvolgente notizia, che abbia archiviato dentro di sé lo schianto del Pirellone come un incidente? «Eh, ti ricordi quella volta che uno per sbaglio si è infilato nel grattacielo davanti alla stazione»? Figurarsi. Per la memoria collettiva, quello fu un gesto deliberato. Anche Fabrizio Ravelli che ieri su Repubblica ricorda e analizza emozioni e polemiche, lo definisce così, senza incertezze: il suicidio di Fasulo.

Eppure nel fascicolo custodito in piazza Umanitaria, archivio della Procura, sta scritta un altra verità. L'indagine condotta dal pm Bruna Albertini, sotto la guida dell'allora procuratore Gerardo D'Ambrosio, arrivò alla conclusione che Fasulo perse il controllo del mezzo nel momento peggiore, quando il piccolo aereo era ancora poche decine di metri sopra il suolo, e davanti a lui si stagliava l'unico grattacielo di Milano. Eh sì, perché parliamo del 2002, quando a svettare sul panorama della città non c'erano i nugoli di edifici di oggi. Il Pirellone quindici anni fa era l'unico grattacielo di Milano. E il Commander lo centrò in pieno. Forse, dice l'indagine, perché l'anziano pilota si era piegato per cavar fuori il manuale di istruzioni da sotto il sedile. Possibile?

Dalla sua, il pm aveva una perizia della Agenzia nazionale della sicurezza del volo, che definiva «ragionevolmente improbabile l'ipotesi di un'azione autodistruttiva del pilota dell'aereo HB-CNX», ovvero di Fasulo. Che un aereo fuori controllo volasse perfettamente orizzontale e centrasse il grattacielo esattamente sull'asse mediano, colpendo la tromba degli ascensori, per i periti non dimostrava la tesi del suicidio. Ma a rendere fragili i risultati della perizia era soprattutto l'assenza di qualunque valutazione del retroterra psicologico dell'uomo che stava ai comandi. Non era un uomo qualunque, Fasulo: era un uomo disperato, rovinato economicamente, minacciato dalla 'ndrangheta. Poche ore dopo lo schianto, il figlio disse al giornalista Carlo Brambilla: «Mio padre si è ucciso perché era rovinato dai debiti». E qualche tempo dopo un'amica di Fasulo racconterà di una confidenza agghiacciante: «Gino mi disse che se non avesse risolto i suoi debiti si sarebbe lanciato contro il Pirellone».

Fu un suicidio annunciato, insomma, persino brutale nella sua chiarezza: e d'altronde indicato a botta calda un po' da tutti, dal questore Buoncoraglio al sindaco Albertini, come la spiegazione più logica. Invece l'indagine prese da subito un'altra strada, e la percorse fino in fondo. Certo, così fu più agevole ottenere che l'assicurazione del velivolo versasse alle vittime il risarcimento (peraltro modesto, due milioni in tutto).

Ma si lasciarono nell'ombra quelli che sono, quanto e più di Fasulo, i colpevoli della tragedia: gli uomini cupi che lo tenevano per il collo, e che quel giorno di aprile lo spinsero a mettersi ai comandi con la voglia disperata e folle di farla finita.

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