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Trenta nuove leggi elettorali per non averne neanche una

Ondata di proposte, di cui nove targate Pd. Eppure manca ancora un testo base in Affari costituzionali

Trenta nuove leggi elettorali  per non averne neanche una

Diceva Montanelli: troppa informazione, nessuna informazione. Paradosso confermato dalla realtà che viviamo. Lo stesso accade in Parlamento con la legge elettorale che doveva essere uno dei primi adempimenti del governo per arrivare di corsa alle urne.

Facile prevedere, con le lingue biforcute che pullulano da quelle parti, che fosse tutta manfrina e tiki-taka a centrocampo, tanto per far sparire la palla. Ecco la bellezza dei 29 ddl presentati, dei quali nove solo dal Pd, e l'assenza di un testo base alla fine del primo round di lavori alla commissione Affari costituzionali della Camera. Già si sapeva che per fare qualche passettino in avanti occorreva aspettare le primarie del Pd, così è stato. Non senza che i pidini ci abbiano risparmiato, in queste settimane, chiacchiera inutile alla bisogna ma congeniale ai desideri del Capo (uscente e rientrante). Che, dopo aver giurato sulla persistenza del Mattarellum, dei capilista bloccati e del premio di lista, ieri ha fatto fare ai suoi deputati l'ultimo giro di valzer, tanto per vedere l'effetto che fa. Scesi dal muro, anzi «dal pero», come sfotte Brunetta (Fi), i pidini hanno presentato l'ultima proposta. «Collegi uninominali, premio di maggioranza alla lista e armonizzazione verso l'alto delle soglie di sbarramento in ingresso tra Camera e Senato (presumibilmente al 5 per cento, ndr)», sono i punti centrali e «imprescindibili» ora declamati in commissione dal capogruppo Fiano. Sparisce così l'impuntatura sui capilista bloccati e sul Mattarellum, che torna nel cassetto dei vorrei ma non posso. Il presidente Mazziotti (Ap) ha preso atto e spera di poter costruire almeno un «testo base» da portare in aula intorno a metà maggio, ma senza sbilanciarsi sui tempi. La prossima riunione giovedì prossimo, e parte del Pd già s'è dissociata: «Ok al premio di lista? Dove e quando è stato deciso? Ho appreso dalle agenzie di stampa...», lamentava ieri Dario Ginefra. Dubbioso sull'utilità di premio alla lista era perfino l'ultrarenziano Richetti, che vede «il 40 per cento obbiettivo molto lontano, per cui sarebbe meglio spostarlo sulla coalizione». Però Matteo Renzi ha detto già niet: teme che con il premio alla coalizione vinca nettamente un centrodestra unito. Preferisce il caos, e lo ha ripetuto anche in serata in tivù: «Se nessuno prende il 40 per cento, e per ora nessuno si avvicina, ragionevolmente ci dovrà essere una coalizione in Parlamento. Ma quel che accadrà in caso di pareggio lo vedremo il giorno dopo le elezioni... io mi auguro di prenderlo, il 40 per cento». Tortuoso arabesque per poter negare ancora una volta un'alleanza con Berlusconi («Non esiste»), salvo rimetterla in campo il giorno dopo. Ma la speranza renziana si basa soprattutto sul fatto che Salvini resti sulle sue posizioni estreme e che «a naso non vedo un accordo Grillo-Salvini».

Ecco perché, nonostante le flebili voci pidini che parlavano di «qualcosa che si muove in direzione giusta» (Chiti), il sentimento prevalente restava pessimista, cioè realista. «Vabbé, sulla questione collegi c'è un passo avanti e voglio credere che si tengano ferme le parole e non sia tattica... sul resto si discute», diceva Bersani, conoscendo i suoi polli. Anche Area popolare pensa che Renzi voglia rinviare la riforma sine die, tanto da far sospettare ai grillini che «ora si tirerà a campare fino alla manovra lacrime e sangue di dicembre, meglio sarebbe votare subito con la nostra proposta: estensione del sistema Camera al Senato. Il Pd invece ne cambia una al mese».

Fino al 2018 ci sarà ancora tanto da ridere.

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