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Muore anche Cornell È la Spoon River del rock anni Novanta

La grande voce dei Soundgarden forse suicida come Kurt Cobain. Così finisce l'era "grunge"

Muore anche Cornell È la Spoon River del rock anni Novanta

Avanti un altro. Dopo Kurt Cobain. Dopo Layne Staley degli Alice in Chains e Scott Weiland degli Stone Temple Pilots. Il grunge, che è stata l'ultima rivoluzione del rock, sta pagando i conti meno rivoluzionari di tutti: quelli con la morte. Stavolta tocca a Chris Cornell, il più bello, il più bravo, il meno prevedibile.

L'hanno trovato morto l'altra sera nel bagno della sua stanza d'albergo a Detroit, aveva appena cantato con i Soundgarden e stava per compiere 52 anni. Una fine che ricorda, mutatis mutandis, quella di Tommy Bolin dei Deep Purple, anch'egli morto dopo uno show (all'Hotel Newport di Miami nel 1976). Lui aveva abusato di cocaina, eroina e whisky. Invece Chris Cornell è stato ritrovato ormai senza vita con un nastro adesivo intorno al collo. Suicida come il suo idolo Jeff Buckley e come il suo amico Kurt Cobain. In fondo, nonostante abbia cantato molto spesso di droghe, anche nei video amatoriali del concerto di mercoledì sera al Fox Theatre non mostrava evidenti segni di alterazione. Piuttosto, di disperazione.

Dopotutto Chris Cornell, che era nato a Seattle nel 1964 con il nome di Christopher John Boyle e aveva assunto il cognome della madre dopo la separazione dei genitori, era abituato a quella sofferenza poi diventata detonatore della sua musica.

Insieme con Kurt Cobain dei Nirvana ed Eddie Vedder dei Pearl Jam, era nella triade che scombussolò il rock tra gli Ottanta e i Novanta dopo la folata glam metal di Motley Crue e Guns N'Roses. Il grunge. Le camicie a quadri. I suoni a metà tra Black Sabbath, Stooges e Neil Young. I testi nichilisti e avvolti dalla disperazione di non aver nulla da giocarsi nel futuro. Inevitabile rinculo dopo gli anni Ottanta degli yuppies. Qualcosa che segnò una generazione e che scoppiò quasi per caso, all'insaputa persino dei discografici e dei promoter ma che ha lasciato una scia di morte come soltanto il rock di fine anni Sessanta. Forse Chris Cornell aveva intuito subito il proprio destino: è stato lui, con Xana La Fuente, a scoprire moribondo nel 1990 Andrew Wood, quello che sarebbe stato il più grande con i suoi Mother Love Bone (gigantesco il disco Apple con capolavori come Bone China, Stardog champion e This is Shangrila) se non fosse stato abbattuto dall'eroina. Il ventiquattrenne dei Mother Love Bone si era distrutto di droga e morì pochi giorni dopo ascoltando A night at the Opera dei Queen mentre i medici, con l'assenso dei familiari, staccavano i macchinari vitali.

Da quel momento Chris Cornell diventa «The voice of grunge» prima con i suoi Soundgarden e con i Temple of the Dog, una instant band nata per omaggiare proprio Andrew Wood e formata da Stone Gossard, Jeff Ament ed Eddie Vedder (poi insieme nei Pearl Jam) e dal batterista dei Soundgarden Matt Cameron (poi anche lui nei Pearl Jam al posto di Jack Irons finito nei Red Hot Chili Peppers).

Un intreccio claustrofobico che poi portò Cornell nei trascurabili Audioslave con tre transfughi dei Rage Against The Machine (Tim Commerford, Brad Wilk e il brillantissimo Tom Morello alla chitarra). Però, prima di nebulizzarsi in una carriera che gli ha dato molto meno di quanto meritasse la sua voce da quattro ottave, Chris Cornell ha legittimato il grunge con i primi due dischi dei Soundgarden grazie a brani come Rusty cage dal disco Badmotorfinger e Black hole sun da Superunknown.

Sembrava the next star ma diventò la grande incompiuta. Kurt Cobain aveva deciso di immolarsi nel 1994. Eddie Vedder ha perpetuato un cliché ormai stantìo. Chris Cornell, che per un lungo periodo ha anche vissuto in una traversa di via del Corso a Roma dove iscrisse a scuola i figli, ha provato una incerta carriera solista con dischi imbarazzanti come il pop elettronico di Scream del 2009 prodotto da Timbaland (il diavolo e l'acqua santa) ma anche begli esempi come l'acustico live Songbook del 2011 o il brano You know my name dalla colonna sonora dello 007 di Casino Royale. Però nonostante uscite estemporanee tipo «il rock è morto, meglio la dance» oppure ingenue scelte di comunicazione, Chris Cornell è rimasto un simbolo che sembrava destinato a un lungo e consolatorio viale del tramonto. La riunion con i Soundgarden (il disco King animal del 2012 non aggiunge né toglie nulla alla loro storia). Una lunga processione di concerti. Una lenta macerazione nei rimpianti.

Al di là delle vicende personali, Chris Cornell ha avuto la sfortuna di attraversare tutta la tipica e maledetta parabola della rockstar con gli abusi che portano al successo e i conti con la realtà dopo l'insuccesso. È sopravvissuto ai primi, ma probabilmente non ai secondi. Per un talento cristallino come il suo benedetto da una autorevole gloria planetaria, il disinteresse dei grandi media e i concerti nei locali medio piccoli sono stati davvero un calvario sgocciolante dolore per anni. Difatti nei video del suo ultimo concerto lui gronda rassegnato manierismo, la voce pare intatta ma lo spirito ormai sembra abbattuto, quasi annientato. E dopo, in una anonima stanza d'albergo, la sua strada si è interrotta, lasciando il pubblico incredulo a fare i conti con i ricordi. Il bel grunge che fu. Le immagini di giovinezza del suo pubblico interrotte a bruciapelo e condannate all'album dei ricordi.

Insomma la fine sottovoce di una delle più grandi voci del rock di sempre.

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