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M entre l'Istat rileva che il divario tra ricchi e poveri è in aumento continuo e la povertà è sempre più un dramma trasversale, quello della previdenza sociale registra il crollo dei contratti a tempo indeterminato. La difficile condizione economica ha portato a un mutamente della compagine sociale con la nascita di nuovi ceti, accomunati soltanto da un reddito insufficiente. Non è più la coscienza, dice l'Istat, ad aggregare la popolazione ma la quantità di soldi che ciascuno ha sul conto bancario. Se invece di parlare di coscienza, l'Istat avesse nominato la cultura dominante, il suo discorso sarebbe stato più chiaro. Ai tempi della società feudale c'era un migliore equilibrio tra le mete culturalmente suggerite e i mezzi messi a disposizione per raggiungerle. I soldi erano pochi e le strutture sociali inique ma ai sudditi non era suggerita la scalata sociale né un acquisto compulsivo di beni di consumo. Oggi un'iperstimolazione delle aspirazioni proposte dalla cultura provoca negli individui livelli molto alti di frustrazione perché gli obiettivi proposti a tutti sono inaccessibili. Nei fatti c'è una limitazione delle opportunità in una società che si caratterizza per il suo liberismo, per l'esaltazione delle doti d'iniziativa individuale e della concorrenzialità che dovrebbe in teoria offrire a tutti le stesse occasioni e invece le nega a chi parte da un gradino più in basso. In questo clima di frustrazione non si creano rabbia e malumore soltanto per la deprivazione assoluta ma anche quella relativa, frutto della comparazione e dell'invidia tra ceti sociali. È scomparsa la differenza fondamentale tra i veri bisogni e i desideri. I bisogni hanno la necessità di essere immediatamente appagati. I desideri invece non possono essere appagati costantemente. La loro realizzazione si deve programmare a lungo termine. Il desiderio, a differenza della fame e della sete, si nutre non soltanto della sua soddisfazione ma anche della capacità progettuale. La frustrazione attuale nasce dalla marginalizzazione economica di una parte consistente della popolazione, ma anche e soprattutto da una cultura che ha lasciato immaginare che a tutti spetterebbero: lavoro qualificato, notorietà, successo, soldi. Se fossero desideri, e non bisogni, alimenterebbero la creatività e la propensione al lavoro e invece esigendo appagamento immediato non tollerano l'impegno a lungo termine.

Si aspira a una felicità fittizia che si dovrebbe ottenere raggiungendo il successo con la velocità con cui beviamo quando abbiamo sete, mangiamo quando i morsi della fame ci spingono ad entrare in un fast-food.

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