Cultura e Spettacoli

La dimensione del mito affiora in punta di Penna

L'autore non fu soltanto realismo e trasgressione. Registrava le contaminazioni fra materia e spirito

La dimensione del mito affiora in punta di Penna

Affrontare la lettura di questo «Meridiano» appena pubblicato da Mondadori, Sandro Penna, Poesie, prose e diari (pagg. 1420, euro 80) è interessante e necessario per avere una immagine più complessa e nuova di un poeta che molti (io compreso) conoscono soltanto per averlo letto nelle antologie, nonostante fosse stato indicato da Pasolini, con la sua solita irruenza da polemista astuto e consumato, come il più grande poeta lirico del Novecento.

Il curatore Roberto Deidier (la nota biografica è scritta con testimonianze di prima mano da Elio Pecora) avanza una proposta di lettura che io ho trovato stimolante. Sandro Penna non è semplicemente riconducibile alla linea antiermetica del secolo scorso. Secondo Deidier, questo poeta dalla vita travagliata, povera, marginale, è un poeta che ha nostalgia del futuro, che «combinando l'impossibile con il proibito (...) entra nel mito, lo abita dall'interno». Scrive ancora Deidier che «riconoscendosi come omosessuale, Penna proietta la sua identità su una matrice mitica, e vive miticamente ciò che il mondo delle categorie, la società eterosessuale, vorrebbe fargli vivere come un problema». Alfredo Giuliani definì Penna «una specie di polinesiano capitato per caso e da perfetto estraneo in mezzo alla società cristiano-borghese dell'Occidente». Ma temo che questa sia una ideologizzazione che appartiene più al critico che al poeta. L'innocenza sensuale e la grazia della povertà, che Italo Calvino attribuì a Penna avvicinandolo a Saba e marcandone le differenze da Caproni, non hanno niente di «polinesiano» o di esotico. Penna è poeta italiano e occidentale che, «intriso di una strana/ gioia di vivere anche nel dolore», è capace di proiettare nel mito le sue pulsioni e i suoi desideri: vicino in ciò ai greci antichi, più che a Kavafis (da cui lo trovo francamente molto diverso).

Mi sono dunque messo a leggere tutte le poesie di Penna cercando questa proiezione mitica nel suo mondo. Un mondo che è popolato innanzi tutto da maschi giovani, espressione che il poeta declina con tante varianti, quasi ossessive: giovini, giovinetti, giovanotti, fanciulli, fanciulletti, ragazzi, ragazzacci. Un mondo di corpi virili, afrori, peccati (che non sono più peccati), palestre, caserme, soldati, pisciatoi, operai, losche platee, stazioni con i loro orinatoi, tram, barbieri, atleti, negri, cinema, caffè all'aperto. Su tutto, una luce di luna leopardiana, un sentore di primavera, un desiderio di bellezza: e le ombre di Verlaine e Rimbaud, e, più lontano, di Hölderlin. Leggere in una chiave soltanto realista e trasgressiva un poeta di questa portata è davvero limitativo. Il mito appare dove certi meno se lo aspettano, ma dove io che lavoro sul mito da quarant'anni so che è sempre possibile trovarlo: nelle epifanie, nelle apparizioni, là dove materia a spirito, visibile e invisibile si confondono. Penna lo trova negli occhi neri di un fanciullo, unico dio a cui rivolgere preghiere, e in un giovinetto dio che «se ne va in bicicletta» e «bagna i muri con disinvoltura», la stessa con cui Rimbaud sfogava l'«acre bisogno» dopo trenta o quaranta bicchieri, pisciando «verso i cieli bruni, molto in alto e lontano». Lo trova nella volontà di una poesia che non sia leggera e fatta di parole delicate e malate ma lanci «la sua forza/ a perdersi nell'infinito», in un acrobata adolescente dentro cui vive tutta la tragedia oscura della Bellezza.

Mito è dove l'amore carnale, se eterosessuale o omosessuale non importa, sa espandersi sino a comprendere in sé l'universo: «Oh voglia di baciare un bel ragazzo./ Sole con luna, mare con foreste/ tutt'insieme baciare in una bocca». Mito è saper vedere la primavera nel rigonfiamento dell'angolo dei calzoni dei giovanotti, sentire odore di sole nei propri testicoli, intuire le piume leggere, quelle del dio Ermes, nella voce viva e gentile di un ragazzo, chiamare sacro il fuoco del piacere e invocarne il libero corso, sapere alla fine che la vita è un lieve sogno, e abbandonarsi a una invocazione così: «Ricordati di me dio dell'amore».

Mi è piaciuto questo percorso nei versi di Penna: e leggere qualche racconto come Un po' di febbre, Giulietto, La porta antica, pervasi da una grazia leggera, non ha aggiunto molto. Arrivato alla fine, non so quale posto dare a Penna nel mio personale pantheon. È chiaro che continuo a considerare Montale e Ungaretti superiori per la complessità della loro ispirazione e del loro pensiero, e per la varietà dei loro stili. Penna è monotematico, a tratti monocorde, e rischia di lasciarti con una visione delle cose dominata dalla sua ossessione, dai confini troppo stretti perché possa comunicare qualcosa universalmente. Lo sembra sapere anche lui: «Sempre ragazzi nelle mie poesie!/ Ma io non so parlare d'altre cose./ Le altre cose son tutte noiose./ Io non posso cantarvi Opere Pie». Alla fine, i testi che mi piacciono di più rimangono quelli che sapevo già a memoria, quell'Interno di misteriosa grazia: «E sopra un tavolaccio/ dormiva un ragazzaccio/ bellissimo./ Uscì dalle sue braccia/ annuvolate, esitando un gattino», o la cantabilità piena, ironicamente operistica di: «Trovato ho il mio angioletto/ tra una losca platea/ fumava un sigaretto/ e gli occhi lustri avea...

».

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