Cronache

Parla il "poliziotto coraggio": "Vi racconto la mia verità sull'immigrazione"

Daniele Contucci, l'agente divenuto famoso per aver denunciato tra i primi il malaffare ed il business che si celano dietro all'immigrazione, si sfoga in un libro: "Dalla passione alla rabbia"

Parla il "poliziotto coraggio": "Vi racconto la mia verità sull'immigrazione"

Daniele Contucci, 46 anni ed una divisa cucita addosso da sempre. La stessa che sognava sin da ragazzino oggi è divenuta stretta, soffocante. Così nasce “Dalla passione alla rabbia” (Ed. Il Seme Bianco), libro in cui Contucci, ormai ex membro di un’unità altamente specializzata in materia di immigrazione, mette nero su bianco “tutto il mio percorso” e “tutta la mia rabbia”.

Dopo 27 anni di servizio la passione è diventata rabbia. Quando e perché?

“Quando, nel 2010, sono stato trasferito alla Direzione Centrale Immigrazione e Polizia delle Frontiere e, più precisamente, in una Task Force altamente specializzata in materia di immigrazione denominata Unità Rapida Intervento (Uri). L’esperienza diretta sul campo mi ha permesso di constatare alcuni aspetti della fallimentare gestione del fenomeno migratorio: l’esposizione al rischio malattie infettive durante gli sbarchi dei migranti, i mancati fotosegnalamenti ed il pantano burocratico del Cara di Mineo dove le pratiche d’asilo vengono completate in 18 mesi. Così ho cominciato a denunciare pubblicamente quello a cui assistevo e, da allora, la Uri è stata prima demansionata e poi chiusa. E non solo, le mie denunce davano così fastidio che sono stato ‘parcheggiato’ in ufficio ad inserire nominativi in una banca dati, postazione dove era praticamente impossibile riscontrare anomalie. Ecco perché la passione per il mio lavoro, attraverso cui ho sempre cercato di portare avanti ideali di giustizia, onestà e correttezza, si è trasformata in rabbia per aver subito ritorsioni al limite del mobbing.”

Ci spiega, esattamente, di cosa si è occupato negli ultimi anni?

“Ho coadiuvato il personale di polizia locale di diverse Questure d’Italia nella trattazione del rilascio dei permessi di soggiorno, ottimizzando e uniformando le relative procedure. Con l’istituzione dell’emergenza Nord Africa del 2011 ho contribuito all’apertura dei Centri di Accoglienza Temporanei nel Sud Italia. Dal 2013, poi, sono stato impiegato al Cara di Mineo e nei porti di sbarco migranti dove ho contribuito a snellire, da 18 a 6 mesi, la permanenza per la definizione delle pratiche dei richiedenti asilo al Cara di Mineo, con tanto di riconoscimento da parte del Questore di Catania.”

E adesso?

“Adesso sono in convalescenza in un ospedale militare a causa dello stato ansioso depressivo che si è innescato in questi mesi di calvario.”

Se le dico business dell’immigrazione cosa mi risponde?

“Le rispondo Cara di Mineo. Ogni richiedente asilo ha un costo al giorno per lo Stato di 35 euro, il Cara di Mineo durante il periodo in cui lavoravo ne ospitava quasi 4000, provate a moltiplicare questa cifra per un anno e troverete la risposta. Non a caso, in seguito alle indagini su ‘Mafia Capitale’, il Cara è divenuto il simbolo del malaffare e del business dell’immigrazione. Resta emblematica la frase: ‘Gli immigrati rendono più della droga’.”

E in questo le Ong che ruolo hanno?

“Parallelamente alle operazioni di soccorso ufficiali, ci sono altri salvataggi, quelli messi in atto dalle organizzazioni di volontariato che si spingono fino alle coste libiche incentivando così le partenze e alimentando le organizzazioni criminali. Questo non è umanitarismo ma speculazione. Qualche Procura siciliana, e non solo, sembrerebbe aver aperto dei fascicoli sul caso. Aspettiamo gli sviluppi della magistratura.”

Cosa ne pensa dell’iniziativa di pattugliamento delle acque libiche messa in campo da Generazione Identitaria?

“Penso che è un’iniziativa buona a livello simbolico, dal punto di vista pratico è inconsistente.”

Gli accordi fatti dal premier Gentiloni con la Libia non sono serviti a contenere il fenomeno. Secondo lei qual è la soluzione?

“Prima di tutto bisognerebbe stabilizzare la Libia. Questa è la condizione numero uno per poter fare accordi vantaggiosi per l’Italia. Al momento ci sono incontri per valutare l’eventuale impiego di navi militari contro i trafficanti. Staremo a vedere cosa ne uscirà fuori, ma resto diffidente. Non ritengo credibile un Governo con un mandato a tempo, che ha ereditato dal precedente una fallimentare gestione del fenomeno immigrazione.”

Il pericolo jihadista viene dal mare?

“Come già segnalato dai Servizi esiste la possibilità che qualche elemento jihadista approfitti delle cosiddette ‘carrette del mare’ per giungere in Italia.”

L’Italia è a rischio attentato?

“Non credo si possa parlare di rischio attentato, con la chiusura della rotta balcanica resta solo il Mediterrano ed un’eventuale azione terroristica sul suolo italiano porterebbe all’inevitabile blocco navale, cosa che non converrebbe a nessuno.”

Altra sua denuncia riguarda il rischio epidemia. Ci spiega quali sono le procedure eseguite al momento dello sbarco e perché non tutelano né gli agenti di polizia né i cittadini?

“Le faccio un esempio concreto, nel giugno 2014 ho partecipato ad uno sbarco al Porto di Augusta. Sono arrivate 1200 persone di cui 66 avevano la scabbia e varie unità con tubercolosi conclamata e noi agenti non avevamo i dispositivi di protezione individuale previsti dal Ministero dell’Interno e della Salute. Temevo d’essermi ammalato e, per precauzione, non ho visto mio figlio per 45 giorni.”

Perché in assenza dei dispositivi di protezione individuale non si rifiutò di procedere alle operazioni?

“Per senso del dovere, si trattava di una situazione emergenziale. Però, a luglio, convinsi tutto il personale dell’Uri ad inoltrare alla nostra Direzione Centrale dell’Immigrazione e della Polizia delle Frontiere la richiesta di esser sottoposti ad accertamenti sanitari. Due giorni dopo l’istanza fu accolta dal Capo della Polizia. Fu emanata subito una circolare sul monitoraggio del personale impiegato nelle operazioni di assistenza, soccorso e scorta ai migranti; con particolare attenzione al controllo del bacillo tubercolare. Sulla scia di tale iniziativa, la Direzione Centrale di Sanità della Polizia di Stato emanò un vademecum informativo, in cui si descrivevano minuziosamente le modalità igienico-preventive da mettere in atto.”

Perché oggi si definisce una vittima del sistema?

“Perché sono stato abbandonato da tutti. Non solo dalla Polizia di Stato ma anche dal sindacato e dalla politica. Inizialmente, un partito di cui preferisco non fare il nome mi aveva supportato dandomi spazio e voce poi anche lì è arrivata la censura. Mi sono sentito sfruttato, letteralmente usato.

E infine messo all’angolo.”

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