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Le banche sono salve Ma l'Europa è un pasticcio

Le norme Ue contro i crac del credito? Un ginepraio in cui conta solo la politica. Per questo ora molti vogliono cambiarle

Le banche sono salve Ma l'Europa è un pasticcio

Il più sincero si è rivelato Alessandro Falciai, presidente del Monte dei Paschi: «Siamo stati il banco di prova di norme mai applicate e abbiamo avuto la sensazione che anche i regolatori facessero fatica a seguirle. Qualcuno per quelle forche caudine doveva passare ed è toccato a noi». Le forche caudine di cui si parla sono le regole europee sui salvataggi bancari: approvate in corsa, nel bel mezzo della più grave crisi finanziaria da 80 anni a questa parte, si sono trasformate in una specie di labirinto, fatto di aggrovigliate procedure in cui hanno dovuto destreggiarsi banche centrali, organismi europei e autorità di controllo nazionali. Ora, con il salvagente lanciato a Popolare di Vicenza e Veneto Banca, il peggio sembra passato. E da più parti si alza l'invito a rimettere mano ai regolamenti per renderli più trasparenti e meno discrezionali, meno esposti a contrattazioni e negoziati politici. Di sicuro tutta la vicenda appare l'applicazione pratica del pensiero di uno dei padri dell'Europa, il francese Jean Monnet, teorico della cosiddetta concezione «funzionalista» dell'Unione. Di fronte alla difficoltà di far progredire il progetto europeo, Monnet invitava a fare un passo alla volta, anche correndo qualche rischio, perchè perfino le difficoltà avrebbero finito per essere utili: «L'Europa sarà forgiata dalle crisi e sarà la somma delle soluzioni trovate per risolvere tali crisi».

SULL'ORLO DEL PRECIPIZIO

La storia dei salvataggi bancari inizia con il più grande travaso di ricchezza dallo Stato a una categoria di operatori economici mai verificatosi nella storia. Tutto comincia intorno al 2008, quando il crollo della finanza Usa fa sentire i suoi effetti nel Vecchio Continente. Molte banche europee hanno investito sui prodotti più rischiosi inventati a Wall Street e incominciano a dover fare i conti con enormi buchi di bilancio. I governi vedono aprirsi un baratro di fronte a sè. Il fallimento di un istituto di credito non è come il crac di una normale azienda. Le banche sono come il sistema circolatorio di un'economia: si prestano denaro tra di loro e soprattutto nutrono con i loro finanziamenti le attività produttive. Il collasso di una di loro rischia di fare venire un infarto a migliaia di imprese. E allora i singoli Stati iniziano a dare una mano. E che mano.

Germania, Gran Bretagna, Irlanda, Spagna versano ognuna centinaia di milioni di euro nei bilanci dei e propri istituti. Tra ricapitalizzazioni e prestazioni di garanzie, si calcola che tra il 2008 e il 2015 i governi europei abbiano messo a disposizione delle banche più di 3mila miliardi. In un primo tempo l'Italia sembra appena sfiorata dall'emergenza. Gli istituti di credito della Penisola non hanno partecipato, se non in misura ridotta, al gioco di derivati e mutui suprime. Nella bufera c'è soprattutto il Nord Europa, dove il contribuente vede i suoi soldi usati per rimediare a anni di operazioni finanziarie arrischiate. Dal punto di vista tecnico i soldi versati sono aiuti di Stato, teoricamente vietati dalle norme europee, ma questa volta autorizzati in nome della forza maggiore e del rischio di un crollo complessivo dell'economia. A peggiorare le cose c'è che mentre gli istituti di credito vengono soccorsi con fondi pubblici, molti tra i loro manager continuano a guadagnare ricchi stipendi. E le iniezioni di denaro statale hanno il paradossale effetto di alzare il valore in Borsa dei titoli bancari, facendo guadagnare società finanziarie e grandi investitori.

ARRIVA IL BAIL-IN

Anche per questi motivi i governi europei decidono di intervenire stringendo i cordoni della Borsa. Far fallire le banche non si può, per cui la parola magica diventa «risoluzione», una sorta di «salvataggio condizionato» dell'istituto in dissesto, in cui si salvaguardia la continuità della sua azione, facendo pagare però un prezzo a chi alla banca ha dato soldi. I più penalizzati sono i detentori di capitale di rischio (azionisti) e chi ha investito in obbligazioni junior, che danno un rendimento più alto ma che sono anch'esse più rischiose visto che per legge vengono subordinate ad altre categorie di creditori. In seconda battuta vengono penalizzati gli obbligazionisti ordinari e i correntisti. È l'ormai stranoto bail-in (salvataggio interno), che entra in vigore tra il 2015 e il 2016 con una direttiva dalla sigla impronunciabile: Brrd (Banking Recovery and Resolution Directive).

La soluzione scelta è quella giusta? Secondo le autorità europee rappresenta una equilibrata ripartizione degli oneri tra contribuenti (i meno colpevoli tra tutti, eppure spesso chiamati a ripianare i debiti altrui), investitori e semplici risparmiatori. Ma per l'Italia i problemi iniziano subito. Perchè proprio nel momento in cui la nuova direttiva entra in vigore, le cose cominciano a girare storte.

RISPARMIO TRADITO

A mettere in difficoltà gli istituti della Penisola non è la speculazione, come nel caso degli altri Paesi, ma la recessione. I crediti concessi a tante aziende, messe ko dalla crisi prolungata, diventano inesigibili. Burocrazia e procedure ottocentesche fanno sì che queste garanzie non possano essere esercitate con rapidità; e i crediti «marci» sono come un veleno a lento assorbimento, gli effetti non si vedono subito ma a distanza di tempo. I bilanci degli istituti si appesantiscono un po' alla volta, in qualche caso fino a diventare ingestibili. Quando l'acqua scende si vede chi sta nuotando nudo, dice un detto della finanza americana. Così la crisi finisce per portare a galla la sporcizia che si è cercato di nascondere sotto il tappeto. È il caso dei cosiddetti «prestiti baciati», concessi non per il merito di credito di chi li riceve, ma per sostenere l'andamento dei titoli azionari dello stesso istituto di credito concedente. La pratica è vietata, ma, si scopre, spesso praticata. E oggi la parola è passata alle Procure e alle loro numerose inchieste. Ma la particolarità italiana più dolorosa è un'altra. Le obbligazioni subordinate, quelle prese di mira dal bail-in, sono titoli rischiosi. Eppure dei 67 di miliardi in circolazione, nella Penisola 31 erano in mano a piccoli risparmiatori. Allo stesso modo le azioni non sono l'investimento più adatto per salvaguardare i risparmi di anziani e persone basso reddito. Ma negli anni della crisi alcune banche italiane, per finanziarsi, hanno scelto di piazzare indiscriminatamente tra il pubblico azioni e junior bond. Bisognava impedirlo? Non c'è dubbio e non è un caso che, per motivi diversi, sia Consob che Banca d'Italia siano finiti nel mirino. Alla fine comunque il risultato è uno solo: all'estero il bail-in è stato un modo per limare le unghie a speculatori e investitori professionali, da noi si è trasformato in un problema di tutela del «risparmio tradito».

PUNIZIONE RETROATTIVA

Il problema non si sarebbe posto se le norme del bail-in non fossero state applicate retroattivamente, cioè a prodotti finanziari emessi e venduti ai risparmiatori prima della loro emanazione e per i quali le regole del gioco sono cambiate a partita in corso. È proprio questa una delle critiche al bail-in avanzate da molti osservatori italiani. «Un'altra questione ancora aperta è quella del coordinamento tra norme che regolano la risoluzione a livello europeo e i regimi fallimentari dei singoli Paesi», spiega Angelo Baglioni, docente di Economia politica alla Cattolica di Milano. Sembra una questione tecnica ma ha ricadute importanti. A dimostrarlo è stata la vicenda Popolare di Vicenza-Veneto Banca. Nel tentativo di trovare un strada per il salvataggio le autorità europee hanno concordato con le controparti italiane una sorta di escamotage: i due istituti sono sull'orlo del fallimento, ha detto l'Europa. Ma viste le loro dimensioni non hanno rilevanza «sistemica», per cui si possono applicare le norme italiane sulla liquidazione e non quelle europee sulla risoluzione. La dichiarazione ha «liberato» le mani al nostro paese che ha potuto procedere con il salvataggio a spese dello Stato (per circa 17 miliardi). Ma c'è un problema. Qualche occhiuto osservatore del Nord Europa ha fatto subito notare che la strada imboccata per i due istituti veneti non fa che aprire una falla nelle norme generali sulle risoluzioni bancarie. E l'osservazione rischia di allontanare la piena attuazione dell'Unione bancaria. Il sistema disegnato si basa su tre pilastri: una vigilanza comune, un'autorità e un fondo per le risoluzioni bancarie e, infine, un'assicurazione europea sui depositi. I primi due ci sono, l'ultimo no. Perchè? Semplice: i tedeschi frenano, timorosi di dover pagare anche per gli altri.

Il salvataggio delle due popolari venete rischia di far aumentare la loro diffidenza.

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