Cultura e Spettacoli

Oppio, letture e solitudine. Bazlen, l'uomo misterioso che editò il nostro Novecento

Ecco la prima vera biografia di un uomo-chiave della cultura italiana, critico e scopritore di scrittori

Oppio, letture e solitudine. Bazlen, l'uomo misterioso che editò il nostro Novecento

Nonostante sia considerato una delle figure più elusive del Novecento letterario, il triestino Roberto Bazlen (Bobi per gli amici) è adombrato nel personaggio principale di un racconto di Carlo Levi, L'orologio, ha ispirato il protagonista de Lo stadio di Wimbledon di Daniele del Giudice ed è stato innumerevoli volte esaltato da Roberto Calasso quale agente fondatore dell'Adelphi, senza contare che a tutt'oggi è al centro di una quantità di racconti più o meno apocrifi che ne moltiplicano le imprese. Quando in certi ambienti se ne evoca il nome, negli occhi degli astanti continua ad apparire qualcosa che assomiglia al riflesso di un fiammifero acceso. Adesso, dopo tanti che ne hanno scritto come personaggio da romanzo, la scrittrice e giornalista Cristina Battocletti ce ne dà una biografia - Bobi Bazlen. L'ombra di Trieste (La nave di Teseo, pagg. 392, euro 19,50) - che si sforza di andare al di là della leggenda, sfrondando la selva di aneddoti cresciuta attorno a uno dei massimi letterati del Novecento. Lo studio brilla per agilità, equilibrio critico e una simpatia per il suo eroe che non degenera in connivenza; perché Bazlen è un tipo da accostare con qualche cautela. Giorgio Voghera era convinto che Bobi suscitasse negli altri «quello spontaneo moto d'affetto che si prova quando si incontra un bambino o un animale». Claudio Magris, pur non avendolo conosciuto, ne diffida per «certa compiaciuta cattiveria». Era antipatico anche a Moravia e a Pasolini, del resto.

Le lenti da miope spesse un dito già da ragazzo, «fisicamente sgraziato» secondo il parere della figlia di Svevo, Letizia o senz'altro «gobbo» per la moglie di Saba, Bazlen era un intellettuale prodigioso e soprattutto, per le case editrici, un suggeritore impareggiabile che avendo letto tutti i libri sapeva misurare la grandezza di opere che ancora non avevano ricevuto il successo che meritavano. Fu lui, fra il 1923 e il 1925, a far scoppiare «il caso Svevo» inviando i tre romanzi dell'oscuro Ettore Schmitz a Montale; a spedire, sempre a Montale, la celebre foto con le gambe di Dora Markus; a caldeggiare nel 1926 la traduzione in italiano delle opere di un certo Kafka e di un certo Musil («Troppo lungo, troppo lento, troppo frammentario. Da pubblicare a occhi chiusi») nonché qualche anno dopo a scoprire per l'Italia Gombrowicz e il Potocki del Manoscritto ritrovato a Saragozza; e naturalmente ad accompagnare la fondazione nel 1962, assieme al transfugo einaudiano Luciano Foà, dell'Adelphi, la casa editrice che trasformando le ossessioni di Bazlen in catalogo (amava l'astrologia, la storia delle religioni, la letteratura mitteleuropea e slava, la psicoanalisi junghiana) riuscì nel giro di qualche lustro a colmare la gigantesca voragine tematica che in quegli anni di impegno politico totalizzante, ovviamente a sinistra, caratterizzava l'editoria italiana.

Una figura simile non poteva che nascere nella Trieste austroungarica di inizio Novecento. Il padre era un tedesco di religione evangelica, la madre, triestina ed ebrea. Bobi diventerà ben presto una delle figure centrali dei circoli intellettuali, assieme al più anziano Svevo (che spesso raggiungeva gli scrittori più giovani nelle osterie per giocare a bocce) e a Saba, della cui figlia Linuccia si innamorerà fino a fuggire con lei a Milano, senza mai riuscire a piegare l'irriducibile opposizione del poeta. A Trieste ebbe come professore di inglese il fratello di Joyce e fu uno dei primi ad acquistare una copia dell'Ulisse. Ma Trieste non era l'Arcadia; era, invece, la città con il massimo numero di suicidi d'Europa dove tre comunità non integrate (tedesca, italiana e slava) vivevano nell'angoscia del crollo imminente di un impero secolare, i cui sinistri scricchiolii toglievano il sonno. Un simile marasma rese la città permeabile alla neonata psicoanalisi. Sarà proprio uno psicanalista, Edoardo Weiss, a spezzare in due la vita di un Bazlen che non riusciva a tenersi stretto un lavoro né una donna, ordinandogli di abbandonare Trieste e di non rivedere più la madre, una donna oppressiva e quasi cieca che viveva solo per il figlio (il marito era morto quando Bobi aveva poco più di un anno).

Una volta partito da Trieste, Bazlen rispetterà l'imperativo di un dorato nomadismo, una sorta di eterno couchsurfing che lo vedeva ospite di amici a Genova, Firenze, Positano. Solo dopo il secondo conflitto mondiale giungerà a guadagnarsi una pace relativa a Roma, in un appartamento di via Margutta e poi a Wimbledon, alla periferia di Londra, dove viveva la donna che gli fu vicina negli ultimi anni, Ljuba Blumenthal.

Il Bazlen della Battocletti è meno infallibile del genio sagace, ma perturbante e automatico, tratteggiato da Calasso; appaiono picchi di grande generosità (secondo Giorgio Agamben, una volta Bazlen avrebbe parlato per tutta la notte al telefono con Elsa Morante per dissuaderla dal suicidio) accanto a intemperanze teppistiche, come la celebre lettera a Montale in cui, inopinatamente, aggrediva la memoria di Svevo («era stupido, egoista, opportunista...»). Il saggio, inoltre, dà il giusto rilievo alle collaborazioni con altre case editrici, visto che Bazlen lavorò con le sigle editoriali più importanti. Prevale l'immagine di un uomo mai depresso, ma malinconico, che la sera nelle osterie beveva un bicchiere di troppo; forse nella sua vita ci fu anche qualche blando oppiaceo, un vizio che lo avvicinerebbe al misterioso fondatore del surrealismo, Jaques Vaché, che con l'oppio si suicidò. Bazlen, invece, morì come Lautréamont, in un albergo e da solo. Accadde a Milano, nel luglio 1965 (era nato nel 1902) per colpa di una pleurite che aveva preteso di curare con l'agopuntura. Negli ultimi tempi aveva sviluppato una profonda idiosincrasia per i tubi al neon e per la tv. Non leggeva le recensioni.

Probabilmente non avrebbe letto neanche questa.

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