Cultura e Spettacoli

«Racconti brevi? Per finirli io ci metto anche 14 anni...»

L'autore famoso per le short story presenta il primo romanzo, «Lincoln nel Bardo»: «Rivedo le frasi per mesi»

«Racconti brevi? Per finirli io ci metto anche 14 anni...»

George Saunders è famoso, oltre che per i suoi racconti e perché il suo romanzo, Lincoln nel Bardo (Feltrinelli) negli Stati Uniti è stato un caso editoriale (del quale abbiamo già trattato anche su questo giornale), perché nel 2013 ha tenuto un discorso ai laureati della Syracuse University in cui diceva, in sintesi: siate gentili. E in effetti lui è molto gentile, e molto simpatico: è a Mantova, «per la prima volta», al Festivaletteratura, dove oggi alle 16 spiegherà che «Scrivere è far parlare i fantasmi» (con Marco Malvaldi, Palazzo San Sebastiano).

Ha sempre scritto racconti, e ora un romanzo. Che differenza c'è?

«La grande differenza è che un racconto, per me, ha più a che fare con la dimensione dello scherzo, del divertimento; e deve essere soprattutto efficiente. Il romanzo è un cammino più lungo, anche se per me è stato come scrivere un lungo racconto. Non so nemmeno se sia davvero un romanzo, però l'hanno definito così...».

Il metodo è diverso?

«Assolutamente uguale. Comincio a scrivere e poi faccio dei cambiamenti; poi a un certo punto scrivo qualcosa di nuovo, e poi lo scrivo e riscrivo, per molti mesi. Mi aspettavo che scrivere un romanzo fosse diverso, avevo questa idea un po' romantica, e invece no: sono rimasto sorpreso, ma per me è andata bene così, perché ho utilizzato gli stessi procedimenti per renderlo conciso ed efficiente. Ho lucidato e rilucidato la prosa, e sono andato avanti piano piano».

Ho letto che rivede molto.

«È vero. Nell'ultimo libro c'è un racconto che ho impiegato 14 anni a scrivere. È il modo in cui lavoro: raccontare e riraccontare, ancora e ancora, fino a che abbia un senso. Per esempio, a un certo punto Lincoln se ne va dalla cripta. Come torna indietro, perché? Ho scritto e riscritto questa parte. Le storie raccontano chi siamo».

In che senso?

«È come se ti regalassero un appartamento nuovo: è bello, ma è come una stanza d'albergo. Se ogni giorni compri qualcosa di nuovo, dopo una settimana sarà un po' più tuo; e se vai avanti così per cinque anni, alla fine avrà il tuo tocco. Così è con il testo».

Come nasce il suo stile?

«Dipende proprio da questo procedimento. Quando hai deciso così tante cose e per tante volte, il testo ha il tuo marchio. Io parto da una frase standard, che abbia un senso normale; poi, mano a mano diventa sempre più strana, attraverso la revisione. Dopo tre settimane di lavoro, il paragrafo è sempre più conciso».

Per esempio?

«Beh, cominci così: Bob è entrato e si è seduto sul divano marrone. Poi ti dici: sono pigro, quindi Bob si è seduto sul divano marrone è sufficiente. Ma perché il divano è proprio marrone? Diciamo Bob si è seduto sul divano, anzi Bob si è seduto e basta, fino a che ti rimane solo... Bob. Così le frasi diventano come te stesso».

Come definirebbe il suo stile?

«Non lo farei, nel senso che è pericoloso. Se poi cambio? Però fondamentalmente l'obiettivo è che sia sincero e efficiente».

Che ruolo ha l'ironia?

«Sono cresciuto a Chicago, lì scherzare è tipico. Quando sono divertente, sono più vero: e la prosa prende vita quando sono me stesso. È stimolante per il lettore, e sono più sincero».

L'ironia è sempre mescolata alla tragedia.

«È come il mondo è, in realtà. Però anche qui, il piano è duplice. Come quando vai in bicicletta: giri a sinistra, ma poi devi correggere e risterzare... Scrivi qualcosa di divertente, divertente, divertente, e poi ti dici: così è noioso, non hai niente di serio da dire? E allora scrivi qualcosa di serio, cupo».

Nelle sue opere c'è empatia, ma nessun sentimentalismo. Come ci riesce?

«Di sicuro io sento le cose profondamente. Ma così è, anche, come lavora il romanzo. Devi fare sì che il lettore senta l'emozione come reale; ma l'espressione diretta del sentimento non funziona: e parte del modo per riuscirci è rivedere il testo. Come quando Lincoln è nella cripta: per capire che cosa stesse pensando in quel momento sono stato ore e ore in quella cripta... Ci vuole molto tempo. La mia speranza è che, così, quello che senti leggendo, se lo senti da te, sia più onesto».

Perché crea mondi alternativi, fantastici, come il Bardo?

«Il mondo sembra sempre normale, ma in realtà tutti dobbiamo morire, prima o poi. Ecco, la fantascienza viene da lì: i fantasmi ci ricordano che dobbiamo morire. E poi, anche qui, c'è l'altro livello: un elemento strano aiuta a far continuare il lettore a leggere. Sono un po' come un ballerino che balla sul palco, e deve intrattenere il pubblico. Se scherzo, se lo diverto, continua a guardarmi».

Si è laureato in Ingegneria geofisica. Ha influenzato la sua scrittura?

«Sì, moltissimo. Innanzitutto, con una scuola così dura impari che puoi anche impegnarti molto, eppure fallire lo stesso. Poi ho lavorato per anni leggendo report tecnici e questo mi ha insegnato un modo non letterario di scrivere. Anche una relazione può essere scritta bene o male, non è solo qualcosa di arido: può avere una sua bellezza. Perciò penso che la mia prosa, con la sua ironia un po' strana, sia diversa da chi per esempio ha studiato Inglese».

Che cosa deve fare la letteratura oggi?

«Secondo me, il massimo è fare sì che lo scrittore e il lettore sentano una connessione, come dire: ehi, ti sto chiamando, non sei solo. L'empatia di cui abbiamo parlato prima».

Il prossimo libro sarà un altro romanzo, o tornerà ai racconti?

«Non lo so.

Aspetto e vedo».

Commenti