Economia

Se la Silicon Valley fa peggio dei vecchi padroni sulle tasse

Troppe regole uccidono, ma oggi i big del web versano imposte pari al 5% degli utili e dominano il mercato

Se la Silicon Valley fa peggio dei vecchi padroni sulle tasse

In fondo le felpette della Silicon Valley sono una bella copia, nel senso di digitale, dei vecchi padroni delle ferriere. Come i loro antenati hanno una forte allergia nei confronti della tassazione e di ogni tipo di regolamentazione. Più volte, noi per primi, abbiamo detto che il mitico Mac non sarebbe nato se avessero applicato in California le leggi stringenti sulla sicurezza adottate in Italia. Il mouse, oggi superato dagli schermi touch, e le icone, che sostituivano le noiose lingue di programmazione e comando, furono una scopiazzatura, non pagata, di brevetti della Xerox. Narra la leggenda. Insomma la California è pur sempre il far west: dove la giustizia si fa da sé e il più tosto emerge. Una certa dose di incoscienza e «irregolarità» è connaturata ai nuovi mercati. Se ci fosse stata un'Autorità sulla regolamentazione dei trasporti, probabilmente gli americani non avrebbero costruito le ferrovie così velocemente; e certamente non sarebbero nati i big del petrolio se la sensibilità ecologica, che poi si è istituzionalizzata, fosse esistita ai tempi di Standard Oil.

È normale che le nuove industrie (comprese quelle digitali) nascano nel far west, dove tutto, anche l'impensabile, è possibile. Ad un certo punto però quando le industrie non son più nane (definizione di Luigi Einaudi) è necessario codificare qualche regola. Così è avvenuto per la new economy dell'800 e così dovrebbe avvenire per il vasto mondo digitale. La materia è delicata: troppe regole uccidono. E nessuno ha l'interesse, se non qualche reazionario, a riportare indietro le lancette dell'orologio. Si deve dunque andare per gradi.

Il primo passo, a questo punto, è la tassazione. Grazie a pratiche elusive i grandi della rete pagano aliquote vicine al 5 per cento sugli utili realizzati in Europa. I tecnici fiscali parlano, per la sola Italia, di un mancato gettito di 5 miliardi l'anno. In un mondo ideale tutti i contribuenti dovrebbero tendere a questo genere di tassazione. Il mondo digitale, grazie ai suoi avvocati e all'immaterialità dei propri affari, è riuscito a realizzare il paradiso dei liberisti in terra. Creando però una concorrenza sleale con chi non è in grado a sfruttare le medesime «distrazioni» tributarie. In sintesi il problema non è la bassa tassazione di cui godono i grandi della rete, ma la particolarità del beneficio. Inoltre, come per i vecchi padroni delle ferriere, meno imposte permettono l'accumulazione di grandi risorse, che vengono usate per stroncare la concorrenza.

Ultima notazione. Il piglio moralistico delle felpette è doppiamente insopportabile. Si predica una libera immigrazione per attirare cervelli e idee. Giusto. Ma il resto degli immigrati, che sono meno cervelli, restano a carico della collettività.

Il paradosso è che il conto dell'orrenda e costosa cucina di Zuma, dove le felpette si ingozzano di sushi, lo pagano quei piccoli imprenditori, quei dipendenti, quei lavoratori autonomi che con la loro mostruosa tassazione, reggono sulle spalle il welfare tanto decantato (ma non pagato) dalle felpette.

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