Controcultura

La tecnocrazia? È peggio della finta democrazia

"La rinascita delle città-stato" (ri)consegna ai burocrati il potere sottratto al libero mercato. Il saggio di Parag Khanna

La tecnocrazia? È peggio della finta democrazia

Il nuovo volume di Parag Khanna (Technocracy in America, uscito in Italia per Fazi con il titolo La rinascita delle città- Stato. Come governare il mondo al tempo della devolution, pagg. 159, euro 20) presenta alcuni elementi di interesse insieme a varie fragilità. Tra i punti di forza ve ne sono due, in particolare, che hanno attratto l’attenzione dei commentatori.

Il saggio accosta la democrazia nella consapevolezza che non sia necessariamente il migliore dei regimi politici e che, anzi, possa spesso ostacolare il pieno sviluppo di libertà e prosperità. Dando prova di realismo, tale studioso di origine indiana sottolinea come i regimi rappresentativi siano essenzialmente oligarchici, così che all’elettore non resta che optare tra questa o quella cricca in competizione. È vero che gli elitisti italiani - da Mosca a Pareto - evidenziarono tutto ciò più di un secolo fa, ma egualmente è sempre utile liberare il campo da finzioni e mitologie. Oltre a ciò, l’autore indica quali modelli da imitare le entità politiche su base cittadina o regionale. Questo spiega perché, nel titolo della versione italiana, si faccia riferimento alla «rinascita delle città-Stato»; e il volume contiene numerosi riferimenti alla Svizzera e soprattutto a Singapore, indicate quali società di successo. Ma in cosa consiste, il vantaggio degli Stati di modesta dimensione? Invece che sottolineare come tali realtà siano caratterizzate da un interventismo limitato (tassazione e regolazione sono assai inferiori che altrove), Khanna enfatizza il ruolo degli apparati burocratici incaricati di plasmare la società: nella gestione del welfare, nella costruzione di infrastrutture, nella programmazione economica. Ai suoi occhi, «gli State-builders, i pianificatori urbani e gli strateghi dell’economia del XXI secolo traggono ispirazione da Lee Kuan Yew (fondatore di Singapore, ndr), non da Thomas Jefferson ».

Se una buona società dipende più dalla pianificazione operata da funzionari che dalle logiche di mercato, non c’è da stupirsi se la stessa Unione europea sia invitata a dare ancor più peso ai tecnocrati. In realtà, simili tesi prestano il fianco a numerose critiche, dato che nulla ci assicura che gli esperti a cui viene consegnato il nostro destino abbiano a cuore il bene della popolazione: sempre che sia possibile conoscerlo. Il testo contrappone «democrazia senza servizi» e «tecnocrazia con servizi », ma non è chiaro che cosa s’intenda con tutto ciò. Il punto di maggiore debolezza sta nel fatto che il politologo non sembra avvertire la razionalità degli ordini spontanei emergenti dall’interazione sociale. Questa limitata comprensione del mercato, del diritto evolutivo e del confronto scientifico si unisce a un ben scarso interesse per i diritti individuali. Così che una buona società non è una società libera, ma una efficiente: qualsiasi cosa ciò voglia dire.

Lo sforzo è d’indirizzarsi verso quella che l’autore chiama una «tecnocrazia diretta»: un ordine che deriverebbe dall’incontro fra tecnocrazia e democrazia diretta, tra l’autoritarismo di Singapore e la partecipazione delle comunità elvetiche alle scelte collettive. Viene proposto, insomma, un sistema nel quale esperti selezionati al di fuori di logiche democratiche sono chiamati a interagire con il pubblico grazie a varie forme di valutazione e consultazione. Khanna sembra credere che la forza di Svizzera e Singapore stia nel fatto che esse avrebbero realizzato un ben dosato mix di dirigismo e mercato, e non già nel fatto che - al contrario - si tratta di due delle società più libere che vi siano al mondo. Egli cita vari indici, ma non quelli che collocano sempre questi due Paesi in cima a ogni graduatoria sulla libertà economica: come l’ultimo Index of Economc Freedom della Heritage Foundation, che mette Singapore al secondo posto, dopo Hong Kong, e la Svizzera al quarto. Il politologo non vede come anche negli studi sulla governance si valorizzino sempre più gli ordini che si basano su relazioni peer-to-peer, rapporti di scambio, reti, comunità volontarie. Egli si ispira a realtà di successo che mescolano tecnocrazia e democrazia, ma trascura il fatto che il governo operato da una élite di pianificatori sociali sia spesso all’origine dei peggiori disastri.

C’è poi molto di ingenuo nella tesi secondo cui il conflitto del nostro tempo non sarebbe tra potere e libertà, ma tra chi sa o non sa dare risposte ai cittadini. A una simile prospettiva sfugge la centralità del tema della sovranità, che connette i regimi tecnocratici e quelli democratici molto più di quanto non si creda. L’autore suggerisce poi una costante cooperazione tra pubblico e privato, come se non fosse chiaro che l’esito di tutto ciò è soltanto uno Stato corruttore e un capitalismo parassitario, che non serve il pubblico ma succhia risorse grazie a ogni forma di protezione.

Nonostante questi limiti, il saggio di Khanna ha il merito di suggerire un ripensamento dei sistemi attuali basato sulla rinascita delle realtà regionali. Dinanzi agli Stati Uniti e alla crisi di una democrazia presidenziale che ormai conta più di 300 milioni di abitanti, egli propone di tornare a quelli che un tempo erano detti i «diritti degli stati», e cioè alle prerogative che le comunità federate possedevano prima di essere quasi annullate in un sistema politico sempre più accentrato.

Valorizzare New York, il Texas e la Silicon Valley significa, però, tornare proprio a Thomas Jefferson e ai suoi ideali, alla competizione tra governi, alla libertà di gestirsi da sé.

Non in nome di un’efficienza difficile da definire e giustificare, ma al fine di proteggere quell’ideale di libertà che fu all’origine della vicenda istituzionale americana.

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