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"Con i soldi del premio Strega ho comprato una stalla"

Lo scrittore rivelazione dell'anno: "Ero un genietto della matematica ma ho mollato tutto. E per vivere ho fatto il cuoco nei rifugi"

"Con i soldi del premio Strega ho comprato una stalla"

Paolo Cognetti cammina per Milano come se fosse su un sentiero in Val d'Aosta, la regione dove vive buona parte dell'anno in una baita isolata a 2mila metri di altezza. Con una disinvoltura degna di nota affronta la città e l'ultimo caldo di settembre in maglietta, bermuda e scarponcini da trekking. È il protagonista del caso letterario dell'anno e probabilmente non solo: il suo ultimo libro, Le otto montagne, è uscito l'8 novembre scorso per Einaudi e in pochi mesi ha vinto il premio Strega, venduto quasi 200mila copie (davvero tante per il mercato italiano) ed è stato protagonista alla Fiera di Francoforte, dove le case editrici straniere hanno fatto la fila per comprare i diritti di traduzione.

Come spesso capita, molto del successo è dovuto al passaparola tra i lettori, che in qualche caso si sono trasformati in tifosi. E oggi, come per un personaggio tv, su Facebook c'è una Cognetti fanpage con quasi 12mila iscritti-appassionati che attraverso la Rete gli lanciano messaggi o gli chiedono di partecipare a questa o quella presentazione.

La trama racconta di una amicizia tra due ragazzi, Pietro che vive in città si trasferisce in una valle intorno al Monte Rosa per la vacanze, e Bruno che lì vive tutto l'anno. La protagonista è la montagna, raccontata con una lingua trasparente ed essenziale. «C'è una retorica sulla montagna che non sopporto», dice. «La trovo falsa. Da questa storia ho lasciato fuori tutta una serie di aggettivi come incantevole, splendido, stupendo».

Con lo stesso distacco Cognetti risponde quando gli si chiede delle tappe del suo velocissimo successo. «Il libro è stato venduto in 34 Paesi», racconta. «E 34 Paesi vogliono dire il mondo. C'è la Cina, la Corea, il Giappone. Da poche settimane è uscita la traduzione francese e tra un po' andrò a Parigi a presentarla. Poi tra l'autunno e l'inverno sarò in Germania, in Inghilterra, negli Stati Uniti». I diritti sono già stati acquistati da un casa di produzione cinematografica. «Sì, ma non bisogna correre troppo, tra l'acquisto dei diritti e la decisione di fare davvero un film c'è di mezzo il mare. Spesso finisce che non se ne fa niente», minimizza l'interessato. «La vera soddisfazione è un'altra: ora riesco a vivere dei miei libri. Non so quanti siamo in Italia, forse una decina o giù di lì».

E dunque la fama improvvisa non ha controindicazioni?

«Devo dire di no. Forse sono abbastanza grande per affrontare la nuova situazione. Non è stato come vincere la lotteria e trovarsi all'improvviso in mano un biglietto milionario. Avevo già scritto molto e avevo le idee chiare su quello che volevo fare. Con i primi soldi mi sono comprato una stalla, accanto alla baita dove vivo. Vorrei farne un centro di incontro e portare in montagna l'esperienza di socialità che ho avuto a Milano dove ho gestito un circolo culturale».

Il suo nome è entrato anche nel dibattito sull'introduzione del liceo breve. Non bisogna fermarsi ai classici dell'Ottocento, i ragazzi devono leggere anche Cognetti, è stato detto. Che effetto le ha fatto?

«Ho pensato che nella mia vita è stato importante un libro della metà degli anni Novanta, Jack Frusciante è uscito dal gruppo. Ci sono libri in grado di avvicinare anche i ragazzi a una lettura attuale, al mondo che li circonda. Se questo accade con il mio, perchè no? Mi farebbe piacere».

Da autore conosciuto solo agli addetti ai lavori a fenomeno editoriale. Il salto è stato comunque brusco.

«Per voi giornalisti è successo tutto all'improvviso. Io l'ho vissuta e mi sento di raccontarla in modo diverso. Scrivo da quando ho 17 anni e alla scrittura ho sacrificato molto. Per scrivere ho lasciato una strada a cui per tutti, me compreso, sembravo destinato. Sin da piccolo sono stato uno studente brillante, una specie di genietto della matematica; ho vinto i campionati italiani e ho partecipato ai mondiali di Parigi. Mio padre, fisico, mi ha sempre spinto in questa direzione e a me è sembrato naturale iscrivermi alla Facoltà di Matematica. Poi ho fatto una virata, ad un certo punto ho mollato tutto. Per anni ho scritto molto, ho letto molto. Una mezza follia che è durata da quando di anni ne avevo 20, fino ad ora che ne ho quasi 40».

Lasciata Matematica, si è diplomato alla Civica scuola di Cinema. Una scelta che può apparire inconsueta.

«A Milano, dove vivevo, non c'era una Holden, una scuola di scrittura. E ho capito subito che la facoltà di Lettere non era la mia strada. L'università non mi era piaciuta, nemmeno Matematica. Mi sembrava di vedere un mondo pieno di gente che viveva parcheggiata e poi non avevo più voglia di studiare. Ho iniziato a occuparmi di documentari, non solo miei; ho fatto il montatore audiovisivo, tanti lavori diversi sempre nel settore. Per un certo periodo ho lavorato anche per la Rai, giravo dei servizi sulle mostre d'arte per Raisat. Poi anche quella esperienza si è esaurita».

Le cronache raccontano che si è messo a fare il barista...

«Con un gruppo di amici ho fatto nascere un circolo culturale di matrice anarchica, si chiama Scighera, è nel quartiere della Bovisa, sempre qui a Milano. Il principio era che tutti dovevano fare tutto. E per tre o quattro anni ho fatto, appunto, proprio di tutto, dal servire al bar a pulire i pavimenti».

Lì ha organizzato il primo corso di scrittura creativa. Tra i partecipanti c'era anche Alessandro Cattelan che adesso si è fatto una fama come conduttore televisivo.

«Sì, era molto simpatico. Ma non c'era solo lui. Sei o sette di quelli che hanno partecipato sono riusciti a pubblicare».

Poi è arrivata la fase newyorkese.

«Più o meno nello stesso periodo andavo e venivo dagli Stati Uniti, su New York ho girato molti documentari, ho scritto due libri. Non su Manhattan, su Brooklyn: la città popolare, quella delle periferie, delle 180 lingue parlate per le strade, degli odori, quella che cade a pezzi, post-industriale. L'ho vista cambiare. Ai miei tempi a Brooklyn verso la baia c'era un immenso porto dismesso. Oggi ci sono parchi e condomini».

Anche quel periodo si è chiuso.

«Non avevo più 20 anni, il periodo dell'avventura era finito, mi sentivo deluso perchè il progetto politico che avevo cercato di realizzare per me personalmente si era concluso. In più avevo molte difficoltà economiche e mi chiedevo dove stavo andando. A tutto si aggiungeva un rifiuto, una delusione generazionale per Milano, che adesso mi sembra molto più bella di allora».

In un'intervista lei ha detto che la svolta è arrivata con un film.

«Il giorno del mio trentesimo compleanno ero talmente in crisi che sono andato al cinema da solo. Ho visto Into the wild-Nelle terre selvagge di Sean Penn basato sul libro di Jon Krakauer. Il film racconta una storia vera, quella di un ragazzo che subito dopo la laurea lascia la famiglia e viaggia per due anni attraverso gli Stati Uniti, fino ad arrivare in Alaska. Da quel film in poi è iniziata la riscoperta della montagna. È stata una riscoperta perchè per me le montagne erano il ricordo dell'infanzia, le vacanze estive, in val d'Aosta andavo per due mesi all'anno, mai andato al mare in vita mia. Grazie a una guida di Gressoney, Renzo Squinobal, avevo imparato ad arrampicarmi, con lui da ragazzino avevo fatto i 4mila del Monte Rosa».

E quindi, in pratica che cosa è successo?

«Ho cercato una baita dove andare a vivere. L'ho trovata in affitto, non nella valle che avevo sempre frequentato, che avevo conosciuto da bambino, ma in quella vicina, a Estoul, in Val d'Ayas. Posti che mi erano familiari ma allo stesso tempo erano da scoprire. E per due o tre anni ho battuto tutti i sentieri per esplorare l'ambiente in cui avevo deciso di abitare. Per guadagnarmi da vivere, e non era un problema marginale, ho iniziato a lavorare come cuoco. Mi è sempre piaciuto cucinare, cucino ancora spesso. Magari non sono uno chef internazionale, ma gestire la cucina di un rifugio di montagna quello lo so fare».

Lei ha detto che ha scoperto la montagna da cittadino.

«La montagna fa parte della mia infanzia e quindi mi appartiene. Ma non sarò mai privo dell'emozione di chi la scopre, e a volte i montanari non hanno la meraviglia di chi la deve conquistare».

In montagna ha continuato a scrivere.

«Ho scritto Il ragazzo selvatico, che è stato pubblicato da Terre di mezzo ed è il diario del primo periodo che ho trascorso in montagna. Lì c'è già molto di quello che poi entrerà nelle Otto montagne. E ci sono gli echi di Walden di Henry David Thoreau, uno dei libri fondamentali sul rapporto tra uomo e natura. Sempre in quel periodo ho scoperto Mario Rigoni Stern. Io avevo passato anni a leggere tutta la letteratura americana, da Hemingway a Carver, ma la lingua di Rigoni Stern ha contribuito a formare la mia esperienza della montagna. E incontri di questo genere non capitano molto spesso nella vita».

Il passaggio da New York alla montagna non sembra così immediato.

«E invece le somiglianze ci sono. C'è la solitudine: io New York l'ho vissuta da solo, ho sempre viaggiato da solo, ricordo grandi camminate, grandi attraversamenti. E tanta cultura americana vive di questo rapporto, del dualismo città-prateria, Est-Ovest. Se sei deluso della città vai verso il West o a Nord, come nel caso di Into the Wild, per ricominciare e rinascere, per ritrovare un'integrità, una purezza perduta. Moby Dick non è altro che la storia di un marinaio di Manhattan che, stanco della città, si imbarca su una baleniera e diventa il narratore della caccia alla balena».

Subito dopo nascono «Le otto montagne»?

«C'è un passaggio intermedio. Ho scritto Sofia si veste sempre di nero, un libro di racconti. L'ha pubblicato un piccolo editore, Minimum Fax, ha suscitato interesse, ed è stato tradotto in diverse lingue. Non accade spesso visto che si trattava di un volume pubblicato da un piccolo marchio. Così molte case grandi casi editrici hanno iniziato a interessarsi di quello che scrivevo. Anche per questo dicevo che a vederlo da dentro il successo delle Otto montagne è legato a un processo graduale».

E adesso ha già l'ansia legata alla necessità di ripetersi?

«Nessuna ansia. Io sono un calvinista, mi identifico nel lavoro. Mi sento già in colpa perchè non sto scrivendo, ma sono pieno di progetti. Non solo letterari. Questa estate, con un gruppo di amici, ho organizzato in val d'Ayas un festival, Il richiamo della foresta. A parlare di montagna sono venuti alpinisti e scrittori, c'erano gruppi musicali rock e folk. In tre giorni sono arrivate tremila persone. Adesso per me la montagna non è più solo meditazione e solitudine. È un'occasione per creare nuovi rapporti e anche per trasferire in un altro contesto quello che è stato il mio impegno politico del passato».

A proposito di impegno. Lei ha preso posizione pubblica contro uno dei progetti di cui più si discute in questo momento in Val d'Aosta: la Funivia Cime Bianche, che dovrebbe unire la Val d'Ayas a Cervinia e Zermatt, creando tra la Valsesia e il Cervino uno dei più grandi comprensori sciistici d'Europa, attraverso una valle fino a ora incontaminata.

«Io dico che bisognerebbe cambiare la prospettiva del turismo di montagna. Mi è ben chiara una cosa: il turismo è uno dei modi per tenere vive aree altrimenti destinate a morire, ma l'assalto distruttivo e invadente ha fatto il suo tempo. Credo che ci sia un modo diverso di vivere le nostre valli, ispirato per esempio all'esperienza dei grandi parchi americani. Un modo che è allo stesso tempo conservativo ma che guarda anche al futuro.

Quella funivia mi sembra davvero un'idea sbagliata».

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