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Cappello, il poeta che sfidò le macerie con la bellezza

I suoi versi erano disciplina e gioia: lottava come i monaci dei secoli bui. Compose anche in friulano

Cappello, il poeta che sfidò le macerie con la bellezza

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Aveva il volto dei prediletti e sembrava sempre sul punto di spiccare il volo. Pierluigi Cappello stava sulla carrozzina come sul bordo di un abisso. Ora si alza e parte, pensavi, guardandolo. Come se fosse teso, perennemente, sui blocchi di partenza, lui, Pierluigi, velocista di talento, che a sedici anni vede sganciarsi sé da se stesso, è sulla moto, con un amico, l'incidente è devastante. «Il dolore intenso è luce, uno scoppio di luce che nasce negli occhi», scrive il poeta, rievocando quel giorno di settembre del 1983, nella biografia di allucinata bellezza, Questa libertà (Rizzoli, 2013).

Pierluigi l'ha detto a migliaia, migliaia di volte sarebbe stato poeta comunque, perché la poesia estingue la storia, raduna il sangue. Semplicemente, da quel giorno del 1983 la poesia assume la consistenza delle cose ultime, delle parole indiscutibili, assolute. Il corpo diventa il metronomo di versi dettati dalla gioia, e la poesia una forma virile di disciplina. Tra la primissima raccolta di versi, Le nebbie (Campanotto, 1994) e quella riassuntiva, ultima, Stato di quiete (Rizzoli, 2016), il percorso lirico di Cappello fu il precipizio di un angelo, una fiammata di ali. In un pensiero del 1998, poi radunato nella brillante raccolta di prose Il dio del mare (Lineadaria, 2008), Cappello, impastato nell'epica «a Rolando seguirono Ettore, Odisseo, Enea... fu il mio primo incontro con la poesia» ci inoltra nella sua idea di poesia. Fatica inossidabile, fiamma nell'incavo dell'oscurità. Cappello si riferisce, in particolare, al «secolo più impervio dell'Europa», quando «il Sacro Impero si era spento nell'accidia di Carlo il Grosso, le coste settentrionali del continente erano battute dai drakkar norvegesi, quelle meridionali dalla pirateria saracena, un silenzio di cenere segnava il passaggio a oriente dei cavalli ungari» e i monaci «chiusi nei loro chiostri, piegati sulle pergamene negli studia scriptoria, agli incendi di intere città contrapposero le fiammicelle delle loro lucerne». Ecco, la grande sfida del poeta di fronte a un secolo di macerie, indifeso contro l'indifferenza dei tempi; la «sfida contro il cielo, non dissimile da quelle lanciate dall'essere umano a Cape Canaveral quando, alzando i suoi totem di titano nella direzione dell'universo, del cielo ha inteso violare le carni di mistero».

Dall'angusto scriptorium della sua carrozzella «l'idea che un uomo potesse dissipare l'intera esistenza fermo dentro quelle mura impietose studiando e scrivendo... mi ripugnava», ricorda Pierluigi specchiandosi nella sua atletica giovinezza Cappello, almeno a partire da quel libro riassuntivo e necessario, Assetto di volo (Crocetti, 2006), ha lanciato la sua sfida, il suo bramito armato, ai secoli. Ma chi è quel poeta che con avventata armonia scrive in friulano gemellandosi a Pier Paolo Pasolini (in Amôrs), flirta con l'Ariosto e con Omero, cita Franz Kafka e Vittorio Sereni, dedica poesie al poeta tardo latino Rutilio Namaziano e a Umberto Saba, «che con l'iride d'azzurro/ brevi ansietà d'imbarco mi riveli» e a Saint-Exupéry, che «staccò l'ombra/ da terra a luglio, lasciando sull'erba/ se stesso e un acre sapore di fulmine», ossessionato dal «nessun dove» e dal «nessun luogo», le cui mani serbano le poche briciole di poesia possibile, ora, ancora? Pierluigi, pur tramortito dal dolore, molto amato, diventò un simbolo. Il simbolo che dall'annientamento può nascere il canto, che dall'urlo si può forgiare, con perizia artigiana, la propria Iliade quotidiana, candida.

A 50 anni, dopo aver vissuto mezzo secolo, dopo aver germinato poesia per il prossimo millennio, Pierluigi, Premio Viareggio nel 2010 per Mandate a dire all'imperatore, si è alzato in volo, angelico, lasciandoci a farfugliare atti di pietà e di memoria. «Ogni poesia perfetta che sia stata scritta in questo mondo è un petalo dell'Eden», ha scritto, punteggiando di fiori il proprio al di là. Scrivere la morte di chi si vuole bene, fa un male bestia è come ingurgitare chiodi. Per qualche anno ho avuto il privilegio di essere amico di Pierluigi. Mi telefonava per leggermi l'ultima poesia, «senti come suona». Anche se ero occupato, dovevo liberarmi, lui lo pretendeva. Parlava con una voce ferma, sonora e di carta. Come di chi conosca l'arte della velocità e della renitenza. Finiva. «Ti è piaciuta?». Era malmenato dai dubbi. Come i giusti.

Come tutti i poeti, quelli veri, che sono inconsapevoli di aver creato qualcosa di meraviglioso.

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