Economia

La cura dimagrante dei prezzi del petrolio fa soffrire la Cdp

Grane da Saipem e Trevi: investimenti svalutati e rischio di dover varare aumento

Sofia Fraschini

C'era una volta il petrolio a 110 dollari al barile, business, affari e ricchi dividendi per gli azionisti: in Italia, in particolare, una buona fetta di interessi pubblici con le partecipazioni statali in Eni, Saipem, Trevi. Era il maggio del 2014. E oggi, a tre anni e mezzo di distanza, i corsi dell'oro nero si sono dimezzati e non si vede un recupero all'orizzonte.

L'ultimissima previsione degli esperti del settore parla chiaro: «Sarà impossibile portare il prezzo sopra 60 dollari». Scelte Opec, produzione Usa, le strategie di Iraq e Iran, venti di guerra: nulla sembra poter dare la vera scossa al settore. Anzi, secondo le ultime analisi, il prezzo del petrolio è molto vicino a nuovi ribassi a causa delle tensioni legate al referendum indipendentista curdo.

Dopo un settembre positivo grazie agli uragani Usa che hanno depresso la produzione, il greggio americano è passato da 46 dollari al barile del 31 agosto, poi è risalito oltre i 50 dollari, una soglia psicologica però abbandonata ieri (49,94 dollari), mentre nello stesso periodo il Brent è passato da 50,2 dollari agli attuali 55 dollari. «Un livello che difficilmente verrà superato» spiega un analista. Brutte notizie dunque all'orizzonte per le società che operano nel mondo del petrolio. E che in Italia, in buona parte, sono partecipate dallo Stato. È il caso di Eni, Saipem e Trevi. Ma con dei distinguo. L'investimento del Tesoro prima e della Cdp, poi, nel Cane a sei zampe è strategico e storico e ha avuto un ritorno più che soddisfacente.

Dal 2010 il Tesoro è titolare del 30%: direttamente per il 4,34% e attraverso Cdp per il 25,76%. E ancora oggi, nonostante le difficoltà, l'investimento in Eni non ha perso valore grazie al fatto che la società ha adottato una strategia di taglio dei costi e ristrutturazione e rilancio del business. Un passaggio essenziale visto che una società petrolifera genera flussi in entrata, i ricavi della vendita di greggio e gas, e in uscita, gli investimenti in nuovi giacimenti. Se i prezzi sono stabili o in crescita (2001-2008) è facile calcolare la redditività degli investimenti. In caso contrario, il meccanismo si inceppa e a rischio, oltre alla remunerazione, è la tenuta stessa del business. È il caso di Saipem e Trevi, due delle imprese di Stato dell'energy che stanno mettendo in difficoltà via XX Settembre. Per queste due società, che si occupano di servire le major del petrolio, il crollo del prezzo dell'oro nero, e la conseguente mancanza di nuove commesse, sono stati fatali. A essere penalizzato è l'intero business e, in particolare, il valore del titolo in Borsa. Cdp equity ha fiducia che le perdite accumulate sui due fronti saranno recuperabili. Nell'attesa, però, il conto è salato. Per quanto riguarda Saipem, reduce da 3 miliardi di perdite negli ultimi 4 anni, l'investimento da 903 milioni effettuato a fine 2015 (per il 12,5% dall'Eni) è appesantito da una minusvalenza potenziale di 370 milioni. Complice un difficile aumento di capitale rivelatosi assai diluitivo.

A pesare sul conto della Cdp è anche Trevi. Per la piccola Saipem, partecipata da Fsi Investimenti, Cdp ha sborsato 100 milioni a fine 2014. Ma quel 16,8% della società che opera nelle escavazioni petrolifere è già stato svalutato per 33 milioni. Come se non bastasse, dopo l'ultima semestrale, martedì, il titolo è crollato fino a quota 0,62 euro perdendo oltre il 17%.

Una brutta notizia per la Cdp che, all'orizzonte, potrebbe vedersi costretta ad un aumento in salita sulla falsariga del caso Saipem.

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