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Investire all'estero (se detto) si può. Ma la Finanza si è già messa a caccia

Beni oltre 15mila euro collocati fuori dall’Italia vanno dichiarati. Per i capitali occultati in altri Paesi pene fino a 3 anni di carcere

Investire all'estero (se detto) si può. Ma la Finanza si è già messa a caccia

E adesso qualcuno torna a preoccuparsi: come all’epoca del «dossier Falciani», il primo listone di italiche ricchezze imboscate in Svizzera, e dei Panama Papers, che l’anno scorso scoperchiarono i tesoretti esteri di una sfilza di nostri connazionali. Anche in questo ultimo caso dei Paradise Papers, terza puntata delle rivelazioni sulla passione incontenibile per i conti offshore, a fare paura nell’immediatezza è il pubblico ludibrio, la figuraccia: come toccò allo chansonnier (ed ex senatore comunista) Gino Paoli, colto con due milioni in nero in una banca svizzera.

Poi, con calma ma inesorabili, arriveranno però i guai più seri e duraturi, quelli col fisco e con la magistratura. Nessuno finirà in galera nè in rovina. Ma, a meno di sorprese, si scoprirà che la stragrande maggioranza degli italiani dei Paradise Papers si sono ben guardati dal segnalare nella loro dichiarazione dei redditi il tesoretto custodito in posti esotici. Avere soldi all’estero è un diritto, investire oltreconfine è perfettamente legale: basta dirlo. Ma se uno vuole far sapere all’Agenzia delle entrate i fatti suoi, difficilmente mette i quattrini alle Cayman.

Così al comando generale della Guardia di finanza in queste ore stanno già affilando le armi per mettersi alla caccia. Dalla loro parte, le «fiamme gialle» hanno un precedente importante, la sentenza del settembre scorso della Cassazione che sancì la piena utilizzabilità del dossier Falciani, benchè trafugato in modo illecito dai computer della banca Hsbc (anche se in passato ci furono altre sentenze della Cassazione che stabilivano l’esatto contrario, ma ora appaiono sorpassate); e un quadro normativo complicato ma preciso, dove le vie di fuga sono poche o nulle.

«Quadro RW»: queste sono le paroline magiche, il comparto della dichiarazione dei redditi dove qualunque bene di valore oltre i 15mila euro collocato all’estero - conti, case, azioni e quant’altro - andrebbe indicato. Da quest’obbligo i Paperoni di casa nostra svicolano in due modi: o fingendo di risiedere all’estero e non presentando affatto la dichiarazione dei redditi, trucco piuttosto frequente ma relativamente facile da smontare; o ricorrendo alle banche e ai fondi dei paesi che non aderiscono al Gafi, il Gruppo d’azione finanziaria internazionale, e non hanno quindi l’obbligo di segnalare al fisco italiano le operazioni sospette. Tra questi ci sono paesi marchiati come «black list », ma anche nazioni meno esotiche, come tutte quelle dell’ex blocco comunista. In genere, i titolari di conti e fondi di investimento nei paesi della lista nera dormono sonni tranquilli. Ma cosa accade, in concreto, in casi come quello dei Paradise Papers, quando hacker e giornalisti portano alla luce tutto quanto? Per cercare di limitare i danni, i correntisti occulti hanno a disposizione uno strumento costoso ma efficace: giocare d’anticipo, farsi avanti spontaneamente e chiedere di chiudere il conto versando una parte dei soldi imboscati all’estero. Non è un salasso da poco, perché si va in percentuale sul totale: dal 6 al 15% se i soldi erano custoditi in un paese «normale», il doppio se erano finiti in una nazione della black list. Per tornare a vivere sereno, il correntista rischia di dover mollare a Equitalia fino al 30 per cento del malloppo. Quanti affronteranno il sacrificio, e quanti punteranno invece sulla lotteria dei ricorsi e dei controricorsi?

Sulla bilancia ci sono anche i rischi di trovarsi alle prese, oltre che col fisco, con la magistratura. La creazione occulta di capitali all’estero è reato se supera sia i 150mila euro sia il 10 per cento dei beni complessivi dichiarati. Se entrambe queste soglie vengono superate, scatta la denuncia alla Procura della Repubblica, con pene previste fino ai tre anni di carcere. Con la voluntary disclosure, questo pericolo scompare, perché il reato si estingue.

Peccato - ed è questo il punto su cui in queste ore si staranno febbrilmente consultando discreti studi legali con i loro clienti senza volto - che non tutti i reati si cancellino scendendo a patti con il fisco. E quindi il tema è: come sono state accumulate le ricchezze sistemate alle Virgin Islands o alle Bahamas? Frutto di duro lavoro o di crimini inconfessabili? Dalla associazione a delinquere alla produzione di fatture false, un cospicuo elenco di reati è escluso dal «colpo di spugna».

E tra questi ci sono anche il riciclaggio e l’autoriciclaggio, quando a monte ci siano episodi di corruzione.

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