Cultura e Spettacoli

Beoni, maneschi, viveur e mistici Ecco i frati in lotta contro l'islam

Storie di uomini di frontiera (non solo spirituale) fra '700 e '800

Beoni, maneschi, viveur e mistici Ecco i frati in lotta contro l'islam

Vestono come contadini o alla turca, spesso viaggiano armati, sono sboccati, grandi mangiatori e bevitori, fumano come ciminiere, qualcuno fra loro se la intende con una ragazza lontana e chiede a un amico di scrivere lettere in ungherese alla bella figliola per tenerla in caldo...

Sono questi i protagonisti dei racconti francescani di Ivo Andric (1892-1975, premio Nobel nel '61). Sono frati, fratelli apparentati dalla sventura (che però con l'aiuto del Signore sanno trasformare in fortuna) di vivere in un mondo, la Bosnia dei secoli XVIII e XIX, dove religione fa rima con opinione, dove cattolici, ortodossi e islamici nuotano in un melting pot, cioè letteralmente in un «calderone» che bolle senza soste e in cui molti si scottano fino a bruciare. Quegli uomini di rozza e genuina spiritualità, maneschi e inclini al pianto, carnali e mistici, affascinarono Andric, a sua volta di origine cattolica, tanto che a loro dedicò sia il suo esordio narrativo, il racconto Viaggio di Alija Derzelez (1920), sia la sua tesi di dottorato su «Lo sviluppo della vita spirituale in Bosnia sotto l'influenza della dominazione turca» (1924).

Ma qui, nei Racconti francescani ora riuniti in un volume edito da Castelvecchi (pagg. 192, euro 17,50, a cura di Luca Vaglio, da oggi nelle librerie), troviamo la completa galleria di caratteri autenticamente francescani, che del poverello di Assisi pre-illuminazione hanno la bulimica fame di vita nel mondo e di quello post-illuminazione la penitenziale, scarna fame di fratellanza con il mondo di prima, ma visto con altri occhi.

Sono tre i personaggi di maggior spicco che ricorrono nelle dieci prose. Fra Marko ha studiato a Roma, è ribelle, indisciplinato, insofferente anche nel ruolo di vicario del suo monastero. Quando «il sangue gli mugghiava nelle spalle, nella nuca e poi nella testa» è segno che sta per dialogare con Dio. Se una ragazza di un conoscente, innamoratasi di un turco, vuole convertirsi all'islam, lui la pesta, salvo poi turbarsi per il contatto con quel corpo virgineo. E se un aiducco, cioè un oppositore degli ottomani, dopo una vita di violenze, cincischia sulla propria confessione in punto di morte, lui lo apostrofa così: «povero te, Dio ti chiama e tu fai no con la testa come un ronzino imbizzarrito».

Poi c'è fra Petar, maestro nel riparare armi e orologi e soprattutto nel narrare. Racconta di quando conobbe il flagello della Siria Celebi Hafiz, detto «Hafiz di Fuoco», che tutto distruggeva senza pietà e che fu tradito da una donna. E racconta di quando un tale Dzemo, razza di criminale a petto del quale le odierne faune di Gomorra o di Suburra paiono confraternite di angioletti, per un pelo non lo costrinse a sposarsi con una puttana reclutata in Valacchia.

Infine c'è Serafin, autentico mattatore nelle serate ad alta gradazione alcolica. Rievoca di quando un nobilastro turco voleva farne un muezzin per via della sua voce musicale e potente, ma fu Gesù Cristo in persona a dissuaderlo con modi bruschi. E dà il meglio di sé nella parabola (come chiamarla altrimenti?) del ragazzo troppo mite cacciato dal paradiso da San Pietro in persona, il quale gli imputa proprio la mancanza di carattere.

«Al nostro Ordine - grida Serafin rivolto ai suoi imbarazzati sodali - serve un peccatore, se non altro come esempio, e dove ne troverete un altro migliore di me?».

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