Economia

Il petrolio spaventa i fondi sovrani

Il colosso della Norvegia alleggerisce il portafoglio: in vendita anche quote di Eni e Saipem

Il petrolio spaventa i fondi sovrani

È finita l'era del petrolio? Norges, fondo sovrano norvegese che amministra un trilione di dollari e controlla l'1,5% delle azioni globali partecipando a oltre 9mila gruppi quotati, sta valutando l'uscita dalle partecipazioni nei combustibili fossili su cui finora ha fondato le proprie fortune. Obiettivo: adeguarsi alle nuove pressioni sociali legate ai valori della sostenibilità ambientale e svincolarsi dal rischio legato alla volatilità dei prezzi del greggio, con oscillazioni in un anno da 40 a 60 dollari circa a barile. D'altro canto, come si legge nella presentazione stessa del fondo che, fino a dieci anni fa era conosciuto come Petroleum Fund of Norway, «un giorno il petrolio si esaurirà, ma i norvegesi continueranno a beneficiare dei ritorni del fondo».

La proposta, contenuta in una lettera inviata da Norges Bank al ministero delle Finanze, seguirebbe una strada già percorsa sulle partecipazioni minerarie. L'obiettivo, a giudizio della Banca centrale, è quello di «ridurre la vulnerabilità del Paese alla permanente discesa dei prezzi del petrolio e del gas che potrebbe essere ridotta se il fondo sovrano uscisse da tali investimenti». La strada sembra quindi tracciata anche se, prima di imboccarla definitivamente, occorreranno il via libera dell'esecutivo prima e del parlamento poi. Ci vorrà almeno un anno, quindi.

In vendita ci sarebbero tra l'altro Eni (di cui il fondo ha l'1,7% del capitale) protagonista, nel frattempo, della riorganizzazione delle quote tra il Tesoro e la Cdp; Saipem (1,6% del capitale), che proprio in queste ore ha festeggiato l'aggiudicazione di contratti per un miliardo; Saras (1,6%); oltre a big internazionali come BP (l'1,6%), Royal Dutch Shell (il 2,3%), Total (l'1,6%), Chevron (lo 0,9%) ed Exxon (lo 0,8%). In tutto, 40 miliardi di dollari di partecipazioni. I funzionari norvegesi si sono affrettati a mettere in chiaro che la proposta non dipende da alcuna particolare visione sul futuro dei prezzi del petrolio da cui il Paese deriva il 20% dei suoi introiti anche tramite Stateoil (controllata da Oslo al 67% del capitale): quest'anno si parla di 487 miliardi di dollari. Ma i punti interrogativi sul mercato non sono mancati, tanto più che la decisione di Norges segue quella dell'Arabia Saudita di ridurre la dipendenza dal greggio con il progetto Vision 2030 e quella di Bhp Billiton, maggiore società mineraria al mondo, di vendere le proprie attività Usa legate allo shale oil e allo shale gas. In ogni caso ieri il Wti ha chiuso a 56,35 dollari (+2,1%) e il Brent a 62,55 dollari (+1,9%).

Norges Bank non è certo il primo investitore istituzionale a prendere le distanze dai combustibili fossili.

Ma fino ad oggi i fondi pensione, come il California State Teaches Retirement System, università o altri operatori istituzionali come Axa e il Rockfeller Family Fund, si sono limitati a ridurre i propri investimenti nel settore, non a imboccare definitivamente la via di uscita come si propone di fare Norges.

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