Cultura e Spettacoli

Quanto era meravigliosa la nostra vita vista in bianco e nero

Nella malinconia per il passato c'è una vera bellezza. Come i ricordi di Pamuk legati alla sua Istanbul

Quanto era meravigliosa la nostra vita vista in bianco e nero

Ogni volta che alla televisione incappo in un film in bianco e nero istintivamente mi fermo: posso non conoscerne il regista o gli attori, ignorare tutto della trama, ma so che difficilmente mi deluderà. Razionalmente sono anche in grado di spiegarne il perché, l'artigianato di buon livello applicato a un'attenta lavorazione industriale... C'è però un elemento irrazionale che sovrasta e in qualche modo guida quella spiegazione, e risiede nel bianco e nero in quanto tale, il colore della mia infanzia e della mia adolescenza.

Dalle foto di famiglia alle immagini sui rotocalchi e sui quotidiani, dalle cartoline agli, appunto, programmi tv, al cinema sul grande schermo, la mia è una generazione che crebbe e si formò in quel contrasto e che quel contrasto, a distanza di anni, fa ripiombare indietro, a un tempo fluido e come indistinto che è la tua memoria, quella parte di te che non tornerà più e della quale più acutamente senti la mancanza proprio perché è irraggiungibile eppure reale, dolce e amara, per molti versi struggente. Per un bambino di oggi il bianco e nero è semplicemente un passato che non lo riguarda e al quale può magari prestare un occhio interessato, ma mai complice, mentre per chi ci visse dentro è la chiave che spiega il tuo presente.

Il bianco e nero che nasce dal ricordo è sempre malinconico, indipendentemente dalle memorie evocate. Un'infanzia gioiosa, una famiglia felice, un primo amore corrisposto, hanno comunque come corollario la nostalgia, il commosso ritorno con il pensiero a una terra cui non si può più approdare. In questo binomio di colori, inoltre, si è perfettamente consapevoli che l'uno accompagna e giustifica l'altro, lo spiega oppure lo prepara; a nessuno, si sa, è dato vivere una vita in rosa, ma è proprio nell'alternarsi, nel sovrapporsi, nell'annullarsi di bene e di male, di riso e di pianto che è intessuto il nostro passato e ciò che di esso ci portiamo dietro.

Pur se la malinconia non si nutre necessariamente di tristezza, non desta però meraviglia la tristezza malinconica, il tornare con la mente a giornate uggiose, a quando quell'amicizia indistruttibile si ruppe senza un motivo e mai più si riaggiustò, a uno schiaffo ingiusto di tua madre, a un'umiliazione, una punizione o un fallimento, e il ritrovare in tutti quelli che allora ti sembrarono drammi epocali, il filo rosso in grado di farti capire nel tempo tante cose che il Tempo aveva invece come seppellito, e che invece sono ancora lì a raccontare il tuo carattere. Anche la tristezza può essere terapeutica e se ne può avvertire la nostalgia.

Istanbul. I ricordi e la città di Orhan Pamuk, che a più di dieci anni dalla prima edizione torna ora raddoppiato nelle dimensioni in virtù di un apparato iconografico senza pari (Einaudi, pagg. 660, euro 45; oltre 400 illustrazioni, traduzione di Semsa Gezgin), è un libro in bianco e nero, il colore della memoria del suo autore, e quindi il racconto di una nostalgia. Ma nell'intrecciare un passato privato e uno pubblico, quello di un'intera città, la malinconia che è alla base del primo si trasforma nella tristezza che è l'elemento significativo del secondo, dimodoché l'educazione sentimentale e intellettuale di un giovane turco nato all'alba degli anni Cinquanta si confonde con la condizione di una capitale condannata dal proprio passato e incapace di costruirsi un presente che lo superi e così lo annulli. Nel raccontare un'infanzia e una giovinezza, Pamuk ne fa la metafora per spiegare a sé stesso prima che agli altri il perché di un senso di inattualità, estraneità, incompiutezza, che da quella capitale promana.

Le tristezza che domina Istanbul, lo Hüzün, è per lui «una condizione della mente che la città ha assimilato con orgoglio» e che ha infinite forme e sembianze. Nasce dal crollo dell'impero ottomano, che la lascia piena di un'eredità ingombrante, non sempre presentabile, spesso soffocante, fragile eppure come indistruttibile. Cresce dai sogni delusi di grandezza della Turchia moderna, un Paese che cerca un riscatto nel presente, ma ad ogni passo rischia di sprofondare in ciò che è stato, alterna deliri nazionalistici a tentazioni religiose, sogna un Occidente rassicurante, ma non può fare a meno di accarezzare l'Oriente che sente dentro di sé. Si nutre, inoltre, di infiniti dettagli: le antiche rovine che le case hanno inglobato senza cancellare, il legno annerito dal freddo e dall'umidità delle vecchie costruzioni, le sirene dei battelli che urlano nella nebbia che avvolge d'inverno il Bosforo, i cantanti di terza categoria che imitano le pop star americane e turche, persino «la folla di uomini della mia infanzia, che tornavano a casa fumandosi una sigaretta dopo aver assistito a una delle partite di calcio della nazionale, sempre pesantemente sconfitta».

Come in un gioco di specchi, Istanbul guarda verso l'Europa alla ricerca di quella Istanbul che non c'è: libera dalle miserie, dalla decadenza, fiera di un'identità orientale che le permetta di racchiudere la qualità e i successi dell'invidiato Occidente. Come in un gioco di specchi, il giovane Pamuk, intellettuale che detesta la retorica ottomana, il peso di un passato che non passa, l'arretratezza di un sistema, lo stato di marginalità che esso provoca, sogna un altro sé stesso in grado di liberarlo dalle costrizioni di una famiglia e di un'educazione, di lanciarlo nella modernità di una cultura che attraverso l'arte dia un senso alla vita, permetta la propria realizzazione. E però, tanto è più forte questa voglia di libertà, questo rifiuto di ciò che lo circonda, questa ansia di evadere, tanto il peso del passato, le abitudini, gli usi, i costumi, lo costringono a restare, gli fanno amare con il cuore ciò che il cervello vorrebbe rifiutare. Tristezza è bellezza, malinconica magia.

Romanzo di formazione, Istanbul racconta anche una vocazione, quella alla scrittura, tardiva e confusa, comprensibile solo a partire dal momento in cui il giovane Orhan si rende conto dell'altro sé stesso con cui è costretto a convivere. Prima c'è una malriposta passione nella pittura, gli studi per diventare architetto nel solco di una tradizione familiare di ingegneri e nella convinzione che la modernità significhi, appunto, fare tabula rasa. Il ragazzo Pamuk legge l'Oriente raccontato da Nerval, Gautier, Flaubert, De Amicis, come se anche lui fosse occidentale, come se lì fosse la chiave che apre le porte dell'Orientalismo, una visione del mondo esotica in cui perdersi sapendo però benissimo che c'è sempre un Occidente pronto a riprenderti in casa. Studente nella Turchia degli anni Settanta, del controllo del potere da parte dei militari, del problema curdo e del riproporsi dell'elemento religioso nella chiave laica dei diritti civili, Pamuk è naturaliter di sinistra, vuole la democrazia, i partiti e le elezioni, crede nel progresso, nell'industria e quindi negli operai come alternativa alla reazione, alla campagna e quindi ai contadini. Non è religioso, ma la laicizzazione imposta dall'alto cozza contro il suo progressismo, strumentale nel vedere il recupero della tradizione come un grimaldello contro l'autorità dello Stato. Fra delusioni, sconfitte, amarezze, arriverà a comprendere che l'altro Pamuk, quello affascinato dal passato, quello che si perde nei giornali d'epoca, nelle biblioteche polverose, nella classificazione di un mondo imperiale scomparso, ha gli stessi diritti dell'orgoglioso cantore della supremazia dell'Occidente, del dissacratore della tradizione. L'uno non è dato senza l'altro ed è solo in questa dicotomia difficile eppure feconda che si cela il riscatto.

Così come lentamente scopre sé stesso e di sé stesso si riappropria, allo stesso modo lo scrittore scopre la città e la fa sua. È una scoperta che si muove su una duplice direttiva. Da un lato c'è quella Istanbul meno battuta, meno turistica e meno vetrina commerciale, meno superficiale nel suo europeismo esibito e più nascosta e segreta, tessuta di un cosmopolitismo a cui tenacemente ancora si aggrappa, fatta di vicoli, di agglomerati urbani, di vite di quartiere. Dall'altro c'è la dimensione sempre presente e quindi data come per scontata, e dunque dimenticata, della città di mare, della sentinella del Corno d'Oro e del Bosforo, i venti che la attraversano, le mareggiate che la investono, i giochi d'acqua dei bambini, le fatiche dei pesatori, il via vai dei battelli e dei traghetti, l'incedere pericoloso dei container, dei piroscafi, delle navi da guerra, cerniera fra Oriente e Occidente, teatro e palcoscenico su cui naviga la storia, ma anche camerino, buca del suggeritore, da dove guardare la vita senza essere visti.

Nell'arco di tempo fra le due edizioni di Istanbul, la Turchia, complice il fallito golpe e il giro di vite repressivo che ne è seguito, è di nuovo sprofondata in quell'ormai secolare contrasto fra Oriente e Occidente, secolarismo e confessionalismo, di cui è ancora difficile prevedere l'evolversi, anche se ciò che sembra stagliarsi è un Erdogan nelle vesti di un Ataturk all'incontrario, mutato di segno e di senso, cartina di tornasole di un passato che non volendo e/o non sapendo passare, cerca di inverarsi in una «modernità» orientale al posto di un Oriente occidentalizzato e dove il bianco e nero cederà al colore in caso di successo, all'effetto seppia nel caso di una catastrofe.

Premio Nobel, scrittore di fama internazionale, da Istanbul in realtà Pamuk non si è mai mosso, nel senso che comunque a Istanbul è sempre tornato e ancora oggi continua a vivere in quello che fu il palazzo della sua infanzia, lì dove tutta la famiglia Pamuk, genitori e parenti, diede vita al proprio destino: fallimenti economici, disastri matrimoniali, autoesili all'estero... E questo libro spiega perfettamente il perché di un attaccamento e di un amore.

In bianco e nero, le tinte della memoria di cui si nutre la nostalgia e, con essa, a volte, la speranza.

Commenti