Politica

La legislatura è già archiviata Adesso ognuno corre per sé

La legge elettorale favorisce le coalizioni ma nessuna ha i numeri. Alfano a casa per provarci alle Europee

La legislatura è già archiviata Adesso ognuno corre per sé

Si dice che in Sicilia le notizie arrivino sempre prima e, almeno, sulla decisione di Angelino Alfano di non presentarsi alle prossime elezioni politiche, è stato proprio così. Addirittura una settimana fa, il 2 dicembre, l'argomento era al centro di una conversazione tra consiglieri comunali e regionali siciliani, alla nona edizione del Premio Nino Cordio, a Santa Ninfa. La profezia a cui si sono lasciati andare i veggenti siculi era più o meno questa: «Angelino alle politiche non si presenterà, ma si candiderà alle europee del 2019». Per ora si è avverata solo a metà, ma nei Palazzi romani anche la seconda parte è data per scontata. «Sicuro al mille per mille», giura il senatore Ciccio Colucci, che ha accompagnato Alfano nell'esperienza fuori Forza Italia e, adesso, non vede l'ora di tornare con Berlusconi. «La candidatura alle europee - confida anche Paolo Naccarato, organizzatore della lista Sgarbi-Tremonti - è il patto solenne con cui Renzi ha convinto Angelino a non candidarsi».

Con l'epilogo politico di Alfano si chiude, di fatto, una legislatura che è vissuta proprio sul trasformismo dell'ex delfino del Cav. E i primi a sotterrare il passato, sono proprio i compagni di strada del ministro degli Esteri, che si preparano ad una separazione consensuale: quelli che si alleeranno con il Pd sotto l'egida di Casini, si contano sulle dita di una mano, Lorenzin, Cicchitto e pochi altri; il resto si ritroverà nella quarta gamba del centrodestra alla corte del Cav, insieme ad altri esuli come Costa o gli ex-montiani. «Rimosso il problema Alfano - è la previsione di Colucci - un accordo con Berlusconi si troverà».

Già, la politica è spietata: chi sbaglia paga. Un discorso che vale pure a sinistra, per l'ex sindaco di Milano Pisapia, che ha vissuto sei mesi di gloria e ora, fallito il tentativo di rimettere insieme i cocci del centrosinistra, appartiene pure lui al passato. Il futuro, nel bene e nel male, per quel mondo si chiama Pietro Grasso. Il presidente del Senato ha perso del tutto i freni inibitori e si è calato per intero nei panni del capo del nuovo partito «Liberi e uguali». Addirittura, ha tentato di arruolare un Pisapia, fresco di «ritiro», infischiandosene dei limiti che dovrebbe imporgli il suo ruolo «super partes». E, probabilmente, nei prossimi giorni si ripeterà con la sua dirimpettaia a Montecitorio, la presidentessa Laura Boldrini. Un atteggiamento, quello dell'inquilino di palazzo Madama, che sta irritando non poco il Pd. «Non è solo una questione di stile», si lamenta il renziano Giuseppe Cucca: «Sta bloccando tutto. È diventato il capo dell'opposizione. Per non parlare delle parole che ha pronunciato sul palco di Liberi e uguali. Ho rifiutato tante proposte, ha detto. Ma se la sua carriera è costellata di regali!». Appunto, Grasso già pensa al futuro. Come lui anche gli altri, che fanno i loro calcoli. Si fronteggiano due scuole di pensiero. La prima non crede che dalle urne possa uscire una maggioranza. «Bisognerebbe raggiungere almeno il 43% - osserva Paolo Romani, uno degli ideatori della nuova legge elettorale -: la vedo difficile». Più o meno così la pensa Luigi Zanda, presidente dei senatori del pd. «Avremo tre poli di interdizione e nessuno di governo», spiega. E poi, con un pizzico di ironia aggiunge: «Il colmo siamo stati noi: abbiamo fatto una legge elettorale per le coalizioni, senza avere una coalizione. Mi ricorda la storiella della pastorella mandata dalla nonna in città per vendere la ricottina. La porta sulla testa e sulla strada si fa mille calcoli: la vendo e con i dieci soldi che guadagno compro 4 galline; quelle faranno 4 uova ciascuna, che venderò per 12 soldi; e ancora... Solo che presa dai suoi pensieri, la pastorella inciampa e la ricottina finisce per terra». L'altra scuola di pensiero, invece, è convinta che si innescherà un processo di trascinamento e, alla fine, il centrodestra raggiungerà l'obiettivo. «Il Cav ne è convinto - confida Quagliarello -, le tante liste gli servono per quello».

Inutile aggiungere che l'appartenenza a questa o quella scuola pensiero, finisce per condizionare la strategia elettorale dei leader. Berlusconi, che crede nella vittoria, sta cercando di ampliare al massimo la coalizione, specie al centro. «Per vincere - è la sua convinzione - l'area centrale dell'alleanza deve arrivare almeno al 25%». Matteo Salvini, invece, è più scettico sulla possibilità che il centrodestra riesca ad accaparrarsi la maggioranza dei seggi in Parlamento. Non per nulla sembra più concentrato ad assicurare alla Lega il primato nel centrodestra. Da una parte pone dei veti alle alleanze sul versante centrista: ha storto il naso sugli ex di Scelta civica; sull'ex leghista Tosi; e si prepara a farlo sugli ex seguaci di Alfano. Dall'altra cerca di allargare la Lega, sul versante di destra, agli ex An diventati nel frattempo «sovranisti»: da Storace ad Alemanno, a Menia. Un atteggiamento contraddittorio che lascia perplesso più di qualcuno. «A volte Matteo non lo capisco proprio - confida Gian Marco Centinaio, presidente dei senatori leghisti -: se lui apre agli ex An, scelta che considero un errore, non può, poi, fare lo schizzinoso sugli alleati di Berlusconi».

E a sinistra? Nel futuro di Liberi e uguali ci son prove di dialogo con i grillini. Bersani e D'Alema hanno puntato su Grasso, che fu eletto presidente del Senato con l'ok di Grillo, anche per sondare quella sponda. Renzi, invece, ha ben altro in testa. Anche lui è convinto che questa legge elettorale non farà vincere nessuno dei concorrenti in campo. Per cui privilegia nella sua politica dell'oggi per il domani, gli interlocutori con cui è più facile il confronto: «scalfarianamente» più Berlusconi che Grillo, visto l'attuale rapporto di «fratelli coltelli» che ha con Bersani e soci. Ad esempio, l'idea di accantonare lo ius soli nasce anche da questo retropensiero. «Se avessimo accettato uno scontro parlamentare su quell'argomento - ha spiegato ai suoi - sia in caso di vittoria, sia in caso di sconfitta, avremmo offerto una tribuna a Salvini. E gli avremmo dato la possibilità di crescere a scapito di Forza Italia». Un'analisi che non sorprende più di tanto se si tiene conto della lettura del futuro che fa il segretario del Pd: Renzi ha capito che il Pd non può vincere le elezioni e punta a ritagliarsi un ruolo di king maker. Prima che Alfano e Pisapia mollassero, faceva questi calcoli: «Il Pd prenderà il 25% e tutte le liste alleate il 5%. In totale 200 deputati». Dopo gli addii: «Lorenzin e Casini faranno 2-3%; «Sinistra è progresso», «Sinistra europea», come si chiamerà, cioè un contenitore senza Pisapia, il 2-3%. Se il Pd fa il 25% portiamo a casa 200 deputati». Insomma, per lui il ritiro di Alfano e Pisapia, forse a ragione, vale zero. C'è, però, chi ha dei dubbi di fondo. «Se crede a questi numeri - è la battuta bonaria di Paolo Barani, presidente dei senatori verdiniani, uno dei potenziali alleati - significa che si è drogato». Forse. Il fatto vero è che il leader del Pd non ha molte altre carte da giocare, ha solo la speranza che il centrodestra non faccia cappotto. «In un quando del genere - congettura - io non potrei proprio allearmi con la Lega di Salvini Ma basterebbe solo che Forza Italia facesse il 15-17%...

E a quel punto».

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