Cultura e Spettacoli

Iosif Brodskij e la disobbedienza linguistica (a colpi d'ascia)

Quand'era al confine spaccava legna. Da uomo libero incideva versi. Come quelli di "E così via", in russo e in inglese

Iosif Brodskij e la disobbedienza linguistica (a colpi d'ascia)

Ai poeti, in fondo, i premi piacciono. Vessati dalla civiltà, ignorati dal mercato, sfottuti dall'uomo comune, hanno bisogno di applausi, di tornare ad avere un ruolo «storico». Il 10 dicembre del 1987, giusto trent'anni fa, in Svezia, mentre si aggiustava la giacca e si ripuliva gli occhiali, con volto già accademico e un certo spavaldo pudore del tutto orientale («per una persona dedita alla vita privata, per uno che ha sempre preferito la sua dimensione privata a qualsiasi ruolo pubblico... per un individuo simile trovarsi all'improvviso su questa tribuna è un'esperienza un poco imbarazzante»), ignaro di ogni record - il Premio Nobel per la letteratura a 47 anni, il più giovane di sempre, insieme ad Albert Camus - Iosif Brodskij, forse, pensava a quando era il maudit di Lenigrado, la capelluta star della nuova poesia sovietica.
Probabilmente, ritmando la voce sul palco del Nobel, Brodskij avrà pensato al processo intentatogli poco più di vent'anni prima, nel 1964. Un giudice zelante aveva decretato che «Brodskij non è un poeta» ma un «parassita sociale», che «Brodskij non attende ai doveri del cittadino sovietico riguardanti la produzione di beni di consumo». Esito: cinque anni di confino e di lavori forzati. Forse, sul palco planetario del Premio Nobel, Brodskij ricordava che un poeta prima di usare la penna deve saper maneggiare l'ascia. Durante gli anni dei lavori forzati, Brodskij lavorava il giusto, leggeva molto - gli inglesi, in particolare - e si mise a sfidare le guardie del campo. Le sfidò a spaccare la legna. Afferrò l'ascia e il poeta si mise instancabilmente, senza pause, a spaccare legna dalle sette del mattino fino alle sette e mezzo di sera, «sembrava che ormai, acquistato un certo ritmo, non volesse interromperlo; o era il ritmo che si era impadronito di lui?». Questione di ritmo, capite? Cioè, di poesia. Nel campo di lavoro, nel cuore siberiano del regime sovietico, non conta la giustizia, la verità, ma il ritmo.
Ai laureati del Williams College, nel 1984, alla storiella dell'ascia Brodskij, un poeta piuttosto atletico, affibbiò la morale: «fin quando avete la vostra pelle, una tunica, un mantello e gli arti, non siete ancora sconfitti, checché ne dicano le probabilità». Nel 1972 l'atletismo di Brodskij, supremo erede di Anna Achmatova, La Musa in lutto, come la nominò in uno stupefacente pensiero del 1982 (incarnando in lei la propria vertigine poetica: «i versi dell'Achmatova sono destinati a sopravvivere... perché il linguaggio è più antico dello Stato e perché la prosodia sopravvive sempre alla storia»), gli fece fare il grande salto verso gli Stati Uniti - non prima di essere passato a trovare, nei dintorni di Vienna, Wystan H. Auden, il poeta che adorava - lasciando moglie e figlio. Incapace di fare la parte dell'eroe della dissidenza russa - quando i giornalisti lo tormentavano perché rievocasse gli anni della prigionia, Brodskij faceva spallucce, ghignava storto, dicendo che il suo impegno era nello scrivere le poesie più belle mai scritte, conscio che «proprio perché senti sul collo il fiato di tutti i grandi poeti del passato devi spingerti un po' più in là, dove in teoria non è ancora stato nessuno» - convinto che un verso sia più forte di un tiranno e un libro più indimenticabile di un impero, consapevole che l'etica è una primizia dell'estetica, sul palco svedese Brodskij, autore di alcuni tra i più folgoranti poemi del secondo Novecento (Ninna nanna di Cape Cod, Quinto anniversario, Il nuovo Jules Verne, Kellomaki), dettò il suo programma politico. «Credo che a un potenziale padrone dei nostri destini si dovrebbe domandare, prima di ogni altra cosa, non già quali siano le sue idee in fatto di politica estera, bensì che cosa pensi di Stendhal, Dickens, Dostoevskij. Già per il fatto che il pane quotidiano della letteratura è proprio l'umana diversità e perversità, la letteratura si rivela un antidoto sicuro contro tutti i tentativi - già noti o ancora da inventare - di dare una soluzione totalitaria, di massa, ai problemi dell'esistenza umana».
Silenzio in sala. Che genio. Il poeta, certo che «il canto è una forma di disobbedienza linguistica» in grado di mettere «in discussione tutto l'ordine esistenziale», sa che un governatore che non si confronti con Le memorie del sottosuolo è, semplicemente, incapace di governare. L'estetica è l'unica forma di etica possibile. Poeta che ha lottato, liricamente, contro ogni coercizione della libertà (comunista o teocratica o teofolle: nel 1989, durante una intervista, sfoggia un concetto che oggi suona agghiacciante profezia, «per quanto mi riguarda, penso che la visione musulmana dell'ordine universale debba essere schiacciata e annullata. Dopotutto, dal punto di vista spirituale, abbiamo sei secoli in più di loro, quindi credo che abbiamo il diritto di dire che cosa è giusto e che cosa è sbagliato»), sodale di Osip Mandel'stam, Eugenio Montale e Konstantinos Kavafis (a cui ha dedicato saggi di abbagliante nitore), Brodskij ha trovato ricovero mentale e affettivo (nel 1990 sposa Maria Sozzani) in Italia, su cui ha scritto alcune delle poesie più grandi (le Elegie romane, ad esempio) e in cui riposa, a Venezia (vi ha dedicato un libro proteiforme e inafferrato, Fondamenta degli incurabili).
Poeta ribelle e aristocratico, perfetto e pretenzioso, arduo e solare, la natura duplice di Brodskij è evidente nel libro postumo, E così via, ora edito da Adelphi (pagg. 254, euro 22), che raccoglie poesie scritte in russo e in inglese. Ormai il poeta, su cui converge il verbo di Orazio e quello di Auden, la malinconia di Pasternak e l'ansia di Ovidio, «ibrido di passato e futuro», indifferente come un dio desueto e violentato («Smisi pure di guardarmi indietro. Se odo alle mie spalle/ scalpicciare, ora io non sussulto»), può permettersi ogni cosa, «imitazione e mimetismo/ considerati come forme di lealtà», un tu-per-tu vertiginoso con il darwinismo («L'evoluzione non è l'adattamento della specie/ a un ambiente sconosciuto, ma il trionfo della memoria/ sulla realtà»). Esegeta dei ruderi, delle pietre antiche, parlanti, Brodskij dedica le poesie più belle ai Centauri, «un semplice ero e sarò grammaticale/ nel continuum presente». In effetti, il poeta è proprio così, un centauro, bestia rara, quadrupede con torso umano, feroce e fragile, ferino e astrale, espatriato dal resto degli uomini.

Come Brodskij, in fuga da tutto, un proiettile di cristallo sparato sul cranio dei millenni a venire.

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