Cultura e Spettacoli

Ambiguo, troppo ambiguo il «politico» Thomas Mann

«Moniti all'Europa» è la raccolta dei discorsi democratici dello scrittore dall'animo reazionario

Marino Freschi

«Il mio atteggiamento democratico non è perfettamente sincero, è solo una reazione irritata all'irrazionalismo dei tedeschi e al fascismo in genere, che sinceramente non riesco proprio a sopportare. Al fascismo è riuscito di trasformarmi temporaneamente in oratore ambulante per la democrazia; un ruolo in cui più di una volta sono apparso abbastanza comico ai miei stessi occhi. Ho sempre sentito che, al tempo della mia ostinazione reazionaria, nelle Considerazioni di un impolitico, ero stato molto più interessante e lontano dalla banalità». E a ciò, scritto nel 1952 da Thomas Mann a quasi ottant'anni, si può credere. Ora abbiamo di nuovo a disposizione la raccolta Moniti all'Europa (Oscar Mondadori, pagg. 350, euro 15; introduzione di Giorgio Napolitano ). Questa silloge manniana del politically correct dimostra quanto il Mann delle Considerazioni fosse più intrigante, insidioso e stupendo, come lo erano i suoi maestri: Schopenhauer, Wagner e Nietzsche. Certo, può dispiacere che i testi pubblicati 70 anni fa risultino così polverosi. Con qualche significativa eccezione: il primo scritto, il famoso discorso del 1922 Della repubblica tedesca e il penultimo, La Germania e i tedeschi, pronunciato nel giorno del suo settantesimo compleanno il 6 giugno 1945 alla Library of Congress di Washington. In questi discorsi affiora tutto il dolore, nonché l'ambigua ironia, con cui Mann torna a interrogarsi sull'essenza della vera Kultur germanica, sull'autentica essenza del germanesimo. Ed erano proprio quelle le domande che avevano innervato le Considerazioni di un impolitico, pubblicato nell'anno fatale, nel 1918, quando uscirono anche Il tramonto dell'Occidente di Spengler, nonché Il perturbante di Freud, come pure I punti essenziali della questione sociale di Rudolf Steiner, tutti testi che influenzarono profondamente Thomas Mann, che nell'ottobre 1922 quando tenne a Berlino il discorso Della repubblica tedesca era ancora sconvolto dall'assassinio di Walther Rathenau, anche lui intellettuale conservatore che aveva intimamente creduto nella missione della Kultur germanica, proditoriamente stroncato da un gruppo di estremisti di destra. Quell'attentato fu simbolicamente il punto di rottura definitiva tra gli intellettuali di sentimenti conservatori, come il Mann delle Considerazioni, e i membri delle varie organizzazioni «nazional-rivoluzionarie», di lì a poco egemonizzate da Hitler. E di fronte al presidente della repubblica, Mann compì la sua singolare svolta epocale affermando: «La repubblica è un destino: un destino verso il quale l'unico atteggiamento giusto è quello dell'amor fati».

In questa costellazione Mann propone un'inedita alleanza tra Novalis, il campione della romantica anima germanica, e Walt Whitman, il paladino della democrazia. Un salto mortale che solo lui poteva tentare, ancorché come possibilità, come problema aperto. Erano queste le interrogazioni che lo assillarono per tutta la vita, da quando, molto giovane, collaborava, con il fratello Heinrich, alla rivista patriottica e antisemita Il XX Secolo fino ai grandi romanzi dell'età matura, massimamente La montagna incantata e Il Doctor Faustus, che è il capolavoro dell'ironia irrazionalista manniana: il protagonista, Adrian Leverkühn, è il genio della musica, la personificazione dell'irrazionalismo creatore, del demonismo nietzschiano e wagneriano, mentre il suo fedele amico, il professore Serenus Zeitblom, è l'estrema immagine del tedesco «buono», umano e umanista, ma di cui l'autore scrive: «Zeitblom è una parodia di me stesso. L'atteggiamento di Adrian verso la vita assomiglia al mio molto più di quel che si dovrebbe credere o che si deve credere». Questa ambiguità, tutta manniana, l'avevamo già incontrata nella Montagna incantata, nel serrato dialogo tra l'illuminista massone carducciano Settembrini e il gesuita «reazionario» Naphta. Siamo già negli anni della Repubblica di Weimar, la simpatia umana dell'autore è per Settembrini, ma la fascinazione intellettuale è tutta per Naphta, per le sue ardite e insidiose peripezie spirituali. Nel discorso del 1945 su La Germania e i tedeschi, Mann, coraggiosamente, rivendica l'unità del destino tedesco, rifiutando la separazione tra una Germania «buona» e una «criminale». E così come nel contemporaneo romanzo «faustiano», anche qui alla fine c'è un salto inatteso e commovente: «In ultima analisi la sventura tedesca è soltanto il paradigma per la tragicità della vita umana, in generale. Abbiamo bisogno tutti di quella Grazia di cui ha bisogno, e con urgenza, la Germania».

Dunque chi è Thomas Mann: il «democratico» dei Moniti all'Europa o il grandioso autore della summa della Kultur germanica, da Lutero, Goethe, Wagner e Nietzsche? Ora abbiamo tutte le carte per giudicare. La prefazione di Napolitano è elegante, colta e partecipata. Forse avremmo amato un po' di manniana autoironia perché anche lui ha un percorso straordinario e terribile, dalla stalinista condanna della rivolta d'Ungheria del 1956 alla conversione europeista e democratica.

La sua prefazione come pure le Considerazioni e i Moniti appartengono a un'epoca che si allontana, quella splendidamente descritta da Stefan Zweig nel Mondo di ieri: quella della grande tragedia d'Europa.

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