Cultura e Spettacoli

"La Chiesa cattolica rinnega i suoi santi. La pittura deve salvarli"

Il campione italiano dell'arte sacra denuncia "l'apostasia delle gerarchie ecclesiastiche"

"La Chiesa cattolica rinnega i suoi santi. La pittura deve salvarli"

Mi innervosisco molto, e capita spesso, quando un cattolico conservatore (anche sotto Papa Francesco ne sono rimasti parecchi) manifesta la sua avversione all'arte contemporanea, giudicandola in blocco brutta e nichilista, se non addirittura satanica. Mi innervosisco perché vuol dire che un individuo teoricamente mio simile o sodale l'ha data vinta a Duchamp e Cattelan, è cascato in tutte le provocazioni, considera arte solo ciò che viene spacciato dai media sotto forma di scandalo. Prima di parlare bisognerebbe studiare o almeno informarsi. Si scoprirebbe che in Italia non si dipingevano così tanti bei quadri da almeno mezzo secolo, che nel mercato internazionale dell'arte si vende soprattutto pittura, e soprattutto pittura figurativa, altro che installazioni, e che Giovanni Gasparro vive e lotta insieme a noi. Il campione nazionale dell'arte sacra è ancora giovane, essendo nato nel 1983, ma ha già un corpus di lavori monumentale su cui svettano le 18 pale d'altare (più altrettante cimase e due teleri) della chiesa aquilana di San Giuseppe Artigiano: il più grande ciclo pittorico religioso realizzato in Italia negli ultimi anni.

La tua arte guarda verso l'alto. Cosa pensi di quella che guarda verso il basso, l'arte stercoraria della linea Duchamp-Manzoni(Piero)-Cattelan?

«Barbey d'Aurevilly recensendo A rebours, il romanzo decadente di Huysmans, scrisse: Dopo un libro tale non resta altro all'autore che scegliere tra la canna di una pistola e i piedi della croce. Huysmans scelse la seconda, convertendosi al cattolicesimo. Dopo aver sperimentato le peggiori nefandezze, alla critica, ai collezionisti e agli amanti dell'arte contemporanea non resta, esclusa la canna della pistola, che il ritorno alle belle arti e alla croce».

Può esistere un'arte contemporanea cattolica?

«Può esistere, malgrado l'apostasia delle gerarchie ecclesiastiche che difficilmente si fanno carico di commissioni di un qualche pregio. Ma gli artisti possono lavorare a prescindere dai committenti e riscoprire il carattere figurativo dell'arte cattolica perché questo assicura la trasmissione di un messaggio oggettivo, al contrario dell'astrazione che determina una fruizione soggettivistica, potenzialmente discordante dal dogma».

Sgarbi dice che il tuo ciclo per San Giuseppe Artigiano è riferito alla visione liturgica ed estetica dell'allora regnante Papa Benedetto XVI. Adesso ti riferisci alla visione liturgica ed estetica di Papa Francesco?

«Il mio pensiero estetico e teologico non è subordinato all'avvicendarsi dei singoli pontefici. Sgarbi ha intuito bene la mia sensibilità, anche se non è Benedetto XVI il riferimento immediato del mio pensiero estetico in relazione all'arte sacra. Mi sento figlio della trattatistica post tridentina...».

Addirittura...

«Sì, le mie fonti privilegiate restano quelle della stagione controriformista-barocca, italiana, fiamminga e spagnola. Il felicemente regnante pontefice Francesco non ha mai espresso un pensiero inerente le questioni artistiche, pur avendo l'arte sacra un fortissimo potenziale catechetico. Nei Giardini Vaticani ha fatto installare un'immagine della Vergine Maria e un Crocifisso realizzati da un artista argentino assemblando ferraglie raccattate nelle discariche».

Come ti spieghi che i vescovi inzeppino le chiese di opere iconoclaste e dunque, se non proprio anticattoliche, certamente acattoliche? Ti segnalo quanto recentemente fatto da Tremlett nella chiesetta di Coazzolo e da Favelli in Santa Maria della Spina a Pisa.

«Gli insegnamenti magisteriali di San Pio X, Pio XI e Pio XII in materia d'arte e musica sacra sono stati letteralmente sovvertiti, fin dai tempi delle commissioni scellerate di Giovanni XXIII e Paolo VI: basti pensare alla promozione della scultura dell'ateo-comunista Manzù, chiamato da questi due papi a ritrarli, allestire cappelle private, realizzare portali della basilica di San Pietro con simbologie massoniche. Se dai vertici giungono questi esempi, l'episcopato non può che adeguarsi».

Secondo Gerhard Richter, grande artista non esente da colpe (le vetrate del Duomo di Colonia, adatte a una moschea), «quello che non è più possibile è tutto ciò che è stato detto». Invece tu ritieni che il già-detto si possa ancora dire?

«Assolutamente sì. La grandezza del cattolicesimo è stata quella di non aver imposto argini stilistici severi come quelli della tradizione bizantina. Il cattolicesimo ha permesso l'evoluzione dello stile, ha reso possibile e legittima la coesistenza di Simone Martini, Michelangelo, Bernini e Serpotta».

Questo un tempo? Ma oggi?

«Anche oggi si possono annunciare le verità cristiane in forme diverse. Ma in Italia da un lato si commissionano mosaici fumettistici e neobizantini come quelli del gesuita Marko Ivan Rupnik, dall'altro pannelli aniconici o monocromatici (quindi concettualmente di matrice protestante o giudaico-islamica) come quelli che commissiona, alle grandi firme dell'arte povera, un altro gesuita, Andrea Dall'Asta, per la chiesa di san Fedele a Milano o per il duomo di Reggio Emilia».

Cosa rispondi a chi critica il tuo stilema delle mani plurime?

«Le mani ripetute più volte rimandano a iconografie sacre del Quattrocento: le tante Arma Christi di area fiorentina o fiamminga, la Pietà di Lorenzo Monaco e quella del Maestro della Madonna Strauss, il Cristo in Pietà nel trittico di Domenico di Michelino, il Cristo deriso fra san Domenico e la Santa Vergine in meditazione del Beato Angelico... Il riferimento al futurismo e al cubismo, che tanti hanno evidenziato, non corrisponde a un mio proposito: nella pittura di Balla, Severini e Boccioni all'esaltazione meccanica del movimento è sottesa l'ideologia modernista di rinnegamento della tradizione».

Il pittore Daniele Galliano mi ha detto, con formula quasi ecclesiastica: «Quello che rimane nei secoli dei secoli sono le opere». Qual è la tua opera che ritieni essere destinata a durare di più?

«Un dipinto ultimato in questi mesi, il San Pio V e san Carlo Borromeo difendono il Cattolicesimo dall'Islam e dall'eresia protestante, tela monumentale destinata non a una chiesa ma a un collezionista privato. In tempi in cui la Chiesa cattolica rinnega l'operato dei santi, anche i pittori devono fare la loro parte».

Tu abiti nel profondo Sud, in un piccolo paese mal collegato, e per giunta non hai la patente... De Nittis non sarebbe diventato De Nittis se fosse rimasto a Barletta: oggi invece l'handicap geografico è superabile?

«Sono tornato per consumare l'atto creativo in una dimensione che conciliasse più facilmente meditazione, studio, ricerca. Adelfia è ancora legata alla vita contadina. I tempi quotidiani e stagionali sono scanditi da quelli delle campagne. Ho vissuto a Roma negli anni dell'accademia e, malgrado gli stimoli potentissimi dati dal confronto con l'arte antica, mi risultava più complicato ricreare una dimensione claustrale».

All'accademia eri osteggiato dai professori quattro volte, in quanto cattolico, in quanto pittore, in quanto figurativo, in quanto virtuoso... Ricordo bene?

«Ricordi benissimo. In accademia ho sperimentato le avvisaglie di quelli che sarebbero stati i vizi ideologici della critica e del mercato, una volta catapultato nell'arena dell'arte contemporanea. I docenti, seppur stimando le mie capacità tecniche tanto da non defraudarmi mai della lode accademica, tradivano il loro disprezzo per le scelte formali e contenutistiche delle mie opere. Pittore nell'epoca del concettuale e delle installazioni, per giunta pittore figurativo, inoltre cattolico: possedevo tutte le credenziali per meritarmi sguardi commiserevoli ed epiteti derisori».

Abbiamo parlato di lontananza, concluderei parlando di lentezza, visto che consegni i quadri a nove mesi dalla commissione.

«Dio ha impiegato sette giorni per la creazione dell'universo e dell'uomo. Io, che sono infinitamente meno abile, anche solo per realizzare un quadro ho bisogno di molto più tempo.

E mi piace considerare il mio prodigarmi sull'opera come una gestazione».

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