Politica

Carmen killer e astro-Bohème Se i registi violentano l'Opera

Stravolta (e fischiata) a Firenze la tragedia di Bizet La Mimì di Puccini nello spazio e la pasta della Traviata

Piera Anna Franini

Colpa del caso o della maledizione di Bizet? Una cosa è certa. Il finale rovesciato di Carmen, l'opera di Bizet in scena domenica a Firenze, si è rovesciato ulteriormente piegando la tragedia in commedia. L'opera chiude con la morte della sigaraia Carmen, a ucciderla è il pugnale dell'ex amante Don José: così il libretto. Ma il regista Leo Muscato, firma della produzione fiorentina, ha invertito le parti. Secondo la sua personalissima lettura (condivisa dal sindaco di Firenze, Dario Nardella, che ha detto: «Giusto non ucciderla»), Carmen impugna la pistola e bum, ammazza l'aguzzino. Finale è stato cambiato di sana pianta, con pioggia di contestazioni da parte del pubblico. Perché questa scelta? Il regista ha spiegato che intende sensibilizzare sul tema del femminicidio. Non è che siamo di fronte all'ennesimo caso di irruzione dell'ego del regista per il quale basta la regola «pur che se ne parli»?

Le regìe inopportune imperversano nel piccolo mondo antico dell'opera. E con esse, gli scontri fra registi e direttori d'orchestra, i direttori che hanno carisma, potere (anzitutto sul sovrintendente), conoscenza dell'arte e quindi in grado di difendere le ragioni della musica. Perché suono e parola nascono assieme nella testa del compositore, libretto e partitura si intrecciano, nella musica c'è tutto il dramma che un regista di buon senso e conoscenza deve carpire e tradurre. Quando Giovanna d'Arco di Verdi venne allestita per la prima della Scala del 2015, il direttore d'orchestra Riccardo Chailly ebbe il suo bel da fare a contenere certe derive dei registi Moshe Leiser e Patrice Caurier. Che alla fine, frustrati, mandarono a quel paese il direttore, a sipario chiuso, il 7 dicembre stesso. La pulzella d'Orléans era - secondo la lettura dei registi - tormentata dal sesso, rifiutava una storia d'amore perché voleva combattere, ma come insegna Freud, era in preda a deliri per le scelte fatte. Pulzella che dunque non morì sul rogo, bensì consumata da paranoie e nevrosi. Il rogo fu inserito, ma decontestualizzato. Irruppero i demoni, come da libretto, ma nell'originale dei registi dovevano esservi scene di sodomia, bandite dal direttore.

Di registi che raccontano la propria storia, e non quella del libretto, è piena l'aria. Capita spesso a Dmitri Tcherniakov, ricordiamo una sua orrenda Traviata scaligera con Alfredo che tirava la pasta col matterello cantando «Dei miei bollenti spiriti». La premiata ditta Leiser&Caurier colpì anche al Festival di Salisburgo dove nel Giulio Cesare di Händel decisero di sodomizzare la protagonista, Cecilia Bartoli, un atto per giunta incestuoso condotto dal fratello Tolomeo. La Clemenza di Tito, opera seria di Mozart, nel teatro di Oslo diventò comica nelle mani di Peter Konwitchny. Il critico della testata di riferimento espresse riserve con nordico pudore, lasciando ai posteri-spettatori l'ardua sentenza. E se in Norvegia non si può, è perché lassù prevale la politica del contenimento. E che dire della Bohème in scena in queste settimane a Parigi? Una Bohème senza limiti di spazio. Ne aveva viste di tutti i colori Mimì, ma proiettare la gaia fioraia dalla fredda manina nel cosmo, a bordo di navicella, questa proprio ci mancava. Che sia una pubblicità occulta in omaggio a Jeff Bezos, fautore di spedizioni lunari oltre che fondatore di Amazon? O una visione disorta nel più puro stile Beatles-Yellow Submarine? Il «famolo strano» ha fatto il suo tempo. Abbiamo bisogno di idee.

Non di idee strambe.

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