Cronache

"La ricerca non funziona. Così illudiamo i pazienti e buttiamo via milioni"

L'oncologo: continuiamo a pubblicare studi Ma più che alla cura si pensa a ottenere fondi

"La ricerca non funziona. Così illudiamo i pazienti e buttiamo via milioni"

Il colosso farmaceutico statunitense Pfizer interrompe le sperimentazioni su Alzheimer e Parkinson. E un articolo appena pubblicato sul British Medical Journal dimostra come la maggior parte dei farmaci anti tumorali approvati dall'agenzia europea Ema tra il 2009 e il 2013 non porti ai benefici sperati. Un quadro deprimente, che suona tanto come una sconfitta, su più fronti, della ricerca. Almeno di quella finanziata dalle case farmaceutiche. Ne abbiamo parlato con Ermanno Leo, direttore della struttura complessa di chirurgia dell'apparato digerente colon retto dell'istituto dei Tumori di Milano, che sull'argomento non ha mai fatto segreto delle sue posizioni «fuori dalle righe».

Dottor Leo, sembra che la ricerca sventoli bandiera bianca. Che succede?

«Io parlo del settore di mia competenza, cioè quello oncologico. Diciamo che le cose non funzionano affatto».

Affermazione pesante. Cosa intende?

«Intendo dire che continuano a uscire ricerche che annunciano clamorose scoperte contro il cancro, ma i morti di tumore sono ancora più di 180mila all'anno. Qualcosa non va, giusto?».

Però sono stati fatti parecchi passi avanti.

«Conosciamo solo il 15% di quel che c'è da sapere sul cancro. È ovvio che su una materia così sconosciuta, sia facile trovare un piccolo tassello dell'immenso puzzle da completare. Però io mi aspetterei una cura. Pensi che quando, 40 anni fa, ho deciso di fare l'oncologo, mio padre mi disse che sarei rimasto disoccupato perché la soluzione sembrava vicina. Dopo anni ed anni di ricerche, non conosciamo ancora i meccanismi del tumore. Pubblicando ricerche su risultati che poi non si traducono in cure, illudiamo la gente e basta».

Quindi il vero cancro è nella ricerca?

«Sì. Temo che la ricerca sia più finalizzata alla ricerca del denaro che alla ricerca della cura. Anzi, più dura la ricerca di un determinato centro, più soldi arrivano».

Questione di business?

«E anche di una cattiva organizzazione. Vengono finanziate ricerche anche quando si sa che non porteranno a nulla. Vanno invece fatti più controlli sui risultati: se dopo un tot di tempo non si arriva a nulla, bisogna avere il coraggio di mollare il colpo e concentrarsi su altro».

Come ha fatto la Pfizer?

«In quel caso aspettiamo a parlare di coraggio. Magari ha interrotto le ricerche perché tra uno o due mesi lancerà sul mercato un suo prodotto. Difficile pensare che un colosso del genere rinunci al business del futuro: le patologie della terza età. La stessa cosa avviene con il cancro: le case farmaceutiche hanno monopolizzato ricerca e prodotti».

La ricerca pubblica lamenta che i finanziamenti siano sempre troppo pochi.

«Sembrano pochi perché l'ingordigia nel raccattare fondi fa in modo che vengano mal usati. Avviene anche con le nostre donazioni. Dire che i soldi raccolti servono alla ricerca è un grande passepartout. Ma bisogna capire che tipo di ricerca. Vanno selezionati meglio i progetti. Io non dubito della buona fede di nessuno, ma qualcosa non va nella gare di solidarietà tanto reclamizzate. Pensi che in Italia ci sono 800 società medico scientifiche, una follia».

Ad oggi l'unica cura anti cancro resta la chemio?

«Premetto che, in caso di tumore, la farei anche io. Ma quella non è la soluzione. Bisogna cambiare registro. Le case farmaceutiche lo stanno capendo e hanno finanziato ricerche su farmaci biologici e immunitari».

Lei associa ricerca e case farmaceutiche. Ma se la scoperta arrivasse da un ricercatore qualunque?

«Impossibile. Il ricercatore scientifico in Italia non è libero.

La ricerca resta imbrigliata nella logica dei brevetti e legata a doppio filo ai finanziamenti delle multinazionali».

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