Economia

L'euro mostra i muscoli e Draghi tace

Insolito mutismo della Bce sul cambio forte malgrado l'impatto su ripresa e prezzi

L'euro mostra i muscoli e Draghi tace

Ma l'euro ipertrofico fa ancora paura alla Bce? Viene da chiederselo, visto il mutismo di Mario Draghi. L'estate scorsa, quando la moneta unica flirtava con quota 1,20 dollari, il presidente dell'Eurotower era più volte intervenuto per rimarcare i rischi di un cambio troppo forte. Ora siamo arrivati ben oltre quei valori: fino a 1,2137 ieri, un massimo da tre anni alimentato dal profilarsi in Germania di una nuova Grosse Koalition di governo. E non solo. Le minute diffuse giovedì dalla Bce hanno ventilato la possibilità di una revisione anticipata della cosiddetta forward guidance. In pratica, il rialzo dei tassi potrebbe finire in agenda prima del previsto, contraddicendo le parole di Draghi sulla necessità di mantenere fino a settembre - se non oltre - il quantitative easing a causa di un'inflazione ancora non soddisfacente.

È una frattura nella comunicazione della banca centrale, in genere mai dissonante, di cui i mercati non si sono curati. Così l'euro ha continuato a salire in simbiosi con le Borse dell'eurozona (+7% Milano da inizio anno), nonostante quest'ascesa agisca da detonatore su almeno tre variabili-chiave: sulle esportazioni, destinate a indebolirsi; sui prezzi, suscettibili di incassare spinte deflazionistiche, con ciò complicando l'exit strategy della Bce; sulla stessa crescita economica, a rischio di rallentamento dopo essere stata più solida del previsto al punto da aver fatto da driver (parziale) all'apprezzamento dell'euro.

Insomma: un quadro piuttosto complicato, dove gli aspetti macroeconomici vanno a intersecarsi con la politica monetaria. Eppure, Draghi è silente. Capirne il motivo non è semplice. Soprattutto alla luce della determinazione con cui la scorsa estate aveva affrontato il nodo dei cambi. Nè questa afonia sembra potersi ricondurre semplicemente a una sorta di rassegnazione dovuta al fatto che non è l'euro a essere forte, ma il dollaro a essere debole. Tanto debole che alcuni economisti ne raccontano da tempo l'ormai prossimo tramonto. In effetti, non mancano scricchiolii sinistri sul fatto che il greenback stia perdendo lo status di valuta mondiale di riferimento. In particolare sul mercato petrolifero, dove la Cina, sempre meno dietro le quinte, è il regista di questo cambio di paradigma.

Entro breve, a Shangai, dovrebbero infatti partire le contrattazioni del primo future petrolifero denominato in yuan, mentre la scorsa settimana il governatore della People's Bank of China ha incontrato il ministro saudita delle Finanze. Oggetto del rendez-vous, discutere su quando Ryad accetterà yuan in cambio di greggio. Potrebbe non passare molto tempo.

Se Pechino è in grande manovra, Washington è invece impantanata nelle politiche protezionistiche di Trump, letali per il dollaro e altrettanto poco salutari per un Paese dall'elevato deficit commerciale e che importa deflazione proprio dall'ex Celeste Impero. Ma il dollarino è anche la chiave per permettere alla Fed di alzare i tassi senza provocare sconquassi. Non solo negli Usa, dove la normalizzazione della politica monetaria è fondamentale per riportare sui giusti binari il budget della banca centrale, ma soprattutto nei Paesi emergenti fortemente indebitati in dollari che così scongiurano il rischio di un deragliamento.

In ballo ci sono dunque equilibri instabili e delicatissimi. Ecco perché forse Draghi ha preferito posare il magafono e cucirsi le labbra.

Meglio il super-euro che una nuova crisi mondiale.

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