Controcorrente

"Fotografare insieme la Scala è la nostra terapia di coppia"

Hanno immortalato un'epoca in un milione di scatti: «Nureyev strappò le foto, non si piaceva. Indimenticabile la Loren nel camerino di Muti»

"Fotografare insieme la Scala è  la nostra terapia di coppia"

«Cari Lelli & Masotti, finché foto non vi separi». Così, scherzandoci un po' sopra, deve aver detto chi ha celebrato il matrimonio di questi due signori, celebre coppia nella vita e della fotografia: con la loro sigla una & commerciale che fa tanto artigiani del '900 hanno scattato quasi un milione di immagini solo per la Scala, di cui a lungo sono stati fotografi ufficiali. Ora Silvia Lelli (L) e Roberto Masotti (M) si godono questo tesoro facendo conoscere la loro storia e mostrando il patrimonio delle loro immagini, anche con mostre, incontri ed eventi.

Ne avrete di storie da raccontare...

Lelli: «I nostri obiettivi hanno catturato una lunga fila di star e interpreti che è transitata in teatro, ma anche il bel mondo delle Prime, nobili e monarchi li abbiamo visti tutti».

Fuori qualche nome.

Masotti: «Nella galleria ci sono la regina Elisabetta, Carlo e Diana, Carolina di Monaco e Casiraghi, Papa Woityla, il cardinal Martini. E ancora, i reali di Spagna e Danimarca, l'imperatore del Giappone Hirohito in tournée come Gorbaciov e Sean Connery. E non possiamo dimenticare Sophia Loren nel camerino del maestro Riccardo Muti per salutarlo, Andy Warhol che in un palco tira fuori la sua polaroid e viene fermato da una maschera, Gerry Mulligan assiduo frequentatore. Nitida l'immagine di Eugenio Montale in un palco con la tata, Michelangelo Antonioni, il quartetto Cetra, la visita di Jorge Luis Borges alle prove. Da ricordare la figura di Stockhausen, con lui avevamo un bellissimo rapporto».

Una storia infinita, ma da dove vogliamo cominciare?

L: «Proprio in questa stanza ho fatto il mio primo servizio di foto a un direttore d'orchestra, Riccardo Chailly. In quei primissimi anni ne fotografai diversi. Ad esempio Roberto Abbado».

Come è iniziata la vostra avventura di coppia e professionale?

L: «Professionalmente è iniziata nella seconda parte degli anni Settanta, come fotografi ci interessavamo già allo spettacolo. Con la collaborazione con la rivista Musica Viva sono entrata alla Scala. Vedevo Erio Piccagliani, fino a quel momento il fotografo ufficiale. Carlo Mezzadri, mitico capo ufficio stampa di quegli anni, mi propose l'incarico a sorpresa. Accettai a quattro mani con Roberto perché il tutto si prospettava impegnativo. Da quel momento la nostra firma è Lelli & Masotti».

Si può fare un bilancio di questa «love story» con la macchina fotografica a tracolla?

M: «Bilancio positivo, non farei nulla di diverso da quello che ho fatto. Una cosa ha nutrito l'altra. Non solo lirica, ma pure editoria e festival e già da subito in evidenza la parola Scala, in primo piano dall'inizio perché è magica. Silvia e io abbiamo costruito una professione solida, una vita, una famiglia incrementandola coi figli e nello stesso tempo è cresciuto anche il nostro archivio».

Alle coppie in crisi potreste consigliare una terapia a base di foto, viaggi e spettacoli

L: «C'è una cosa che ha reso vincente la nostra unione, siamo cresciuti insieme. Quando abbiamo iniziato il nostro rapporto alla fine degli anni Sessanta, avevo 16 anni e Roberto 19. Gusti e interessi simili, per noi non c'è mai stata divisione tra la vita privata e quella professionale».

M: «Integrarsi può costituire una terapia, che la fotografia possa essere un buon modo, anche nel nome del belcanto e di tutte le altre arti performative, questo non si sa, è andata bene così a noi».

Coniugi o no due professionisti sullo stesso incarico magari si fanno lo sgambetto, è capitato?

L: «È una domanda che mi fanno spesso, le donne soprattutto, perché la crisi in coppie che operano nello stesso campo spesso è generata dalla gelosia di lui verso il lavoro di lei. Di solito quando si opera insieme l'uomo è visto come il fotografo e la donna come assistente. A noi non è successo, per questo devo dare molto merito a Roberto».

Beh, siete stati bravi a dividervi il lavoro.

M: «Le mie prime incursioni scaligere sono state su spettacoli d'avanguardia, ricordo Stockhausen con Bejart in Stimmung. Abbiamo avuto la possibilità di approfondire anche separatamente, di avere un rapporto con un oggetto polimorfo e articolato in cui tutti gli spazi da noi sono stati intesi come un territorio da esplorare pian piano, lasciando che noi assorbissimo quel luogo, quel teatro, dove da sempre si svolge un'attività incessante».

L: «Quando abbiamo iniziato alla Scala quella dell'opera era ancora un'immagine statica. Abbiamo portato dentro il nostro modo di essere, più da reporter dello spettacolo, in qualche modo svecchiandola. Con noi sono usciti i primi inserti sui programmi di sala su come nasceva un lavoro operistico, con le foto fatte durante le prove, non solo della Prima. Lo spettatore poteva vedere il backstage, poteva capire come si muovevano in scena Ronconi e Zeffirelli per preparare lo spettacolo».

M: «Un modo di lavorare in cui il reporter-interprete costruisce un racconto, legge e spiega, mostra al pubblico cosa avviene dietro alle quinte».

I numeri delle vostre foto fanno effetto: li avete mai contati?

L: «Quello che abbiamo fatto alla Scala è di proprietà del teatro, conservato all'Archivio Fotografico».

M: «Quasi 800mila scatti, molti dei quali possono essere visionati online. Il nostro archivio conta 260mila negativi, poi ci sono i positivi, le stampe e le foto a colori, per un totale di 500mila. Abbiano cominciato con l'analogico, quindi c'è molto bianco e nero, quando si sviluppava e si stampava in camera oscura».

Chi non siete riusciti a immortalare?

L: «È impossibile contarli, diciamo migliaia. Io per poco non ho fotografato Herbert Von Karajan. E ancora Arturo Benedetti Michelangeli, avevo già avuto l'incarico poi lui ha rinunciato al concerto che doveva essere in una chiesa in Francia».

M: «Faccio una deviazione extrascaligera, sono tuttora addolorato di non aver fotografato Jimy Hendrix, poi purtroppo ho mancato Stravinsky, un rimpianto di entrambi. Mentre, al contrario, abbiamo avuto tantissime occasioni con altri grandi, non so quante volte ho ritratto Keith Jarrett, Arvo Paert, Michael Nyman».

Nella vostra galleria, quali sono i preferiti?

M: «Come figura e artista nelle produzioni operistiche Strehler che ha realizzato alcuni degli spettacoli più belli, Falstaff, Don Giovanni e Le Nozze di Figaro. Poi Claudio Abbado, Leonard Bernstein. Nel nostro cuore sono rimaste alcune produzioni di opere contemporanee di Sylvano Bussotti, Salvatore Sciarrino con Pier'Alli e Mauricio Kagel».

L: «Seguo da 40 anni Riccardo Muti, è uno dei direttori che ho sempre amato molto. Tra tutti gli artisti che fotografi il rapporto col direttore ha sempre qualcosa di speciale. Tra i miei ricordi c'è la coreografa tedesca Pina Bausch».

Aneddoti e storie, quali i momenti che non scorderete più?

L: «Sono stati così tanti che hai un flusso continuo di avvenimenti da ricordare. Mi viene in mente la tournée in Giappone del 1981. Il rapporto con la Scala era iniziato da poco. L'accoglienza fu incredibile, in più questo Oriente mi affascinava. C'erano Abbado e il sovrintendente Carlo Maria Badini, più i registi i cantanti, tutti».

M: «La tournée è una sorta di cambio di prospettiva. Tu non sei quello che osserva la Scala ma sei con la Scala, fai parte del gruppo, c'è tutto un teatro con le sue masse e maestranze, giornalisti embedded compresi, e tutti si sentono parte di questa famiglia. C'era un boeing intero dedicato a questa trasferta».

Come sono cambiati i vostri soggetti? Una volta erano maestri sobri con gli occhiali come fondi di bottiglia, oggi musiciste che sembrano pin up...

L: «Più che altro è cambiato come il personaggio vuole apparire, vuole essere sempre al meglio. Una dei primi esempi è stata la violinista Anne Sophie Mutter come anche la cantante Cecilia Bartoli, protagonisti per indiscussa bravura. La società chiede ancora di più tutti gli ingredienti, capacità e bell'aspetto ai primi posti. Però se non hai una grande qualità, dell'immagine non te ne fai proprio niente».

M: «A un certo punto la fotografia di moda, di beauty ha influenzato moltissimo. Poi è arrivata la magia, qualcuno direbbe mania, di intervenire con Photoshop, un sortilegio. Ma, ricordiamolo, questo metodo ripete e ripropone modalità antiche di correggere le foto che gli artigiani della fotografia, come noi, sanno».

Al Piermarini e dintorni il più bello del reame?

L: «Ho amato tantissimo Bernstein e, ripeto, ammiro Muti. Due personalità diversissime, il primo mi catturava per la sua capacità di esprimere la musica con il corpo; Muti per il gesto preciso ed espressivo, una combinazione rara ».

R: «Mi viene in mente l'interiorità che si esprime nel ritratto, penso ai compositori americani John Cage e Morton Feldman o all'estone Arvo Paert. Oppure alla grande violista di ascendenza armena Kim Kashkashian».

Si può dire che negli anni è cambiato il pubblico scaligero?

R: «Il pubblico ha una grandissima importanza anche nel risultato fotografico e non tenerne conto sarebbe stato sbagliato soprattutto in un contesto come quello del Piermarini. Il pubblico come il teatro, come lo spazio e la struttura».

L: «Ora ci sembra un pubblico più informato rispetto agli anni Ottanta, molto più preparato di fronte a programmi anche di musica contemporanea, titoli un po' particolari che a volte arriva a pretendere».

All'appello manca il mondo della danza. Che volti ricordate?

L: «Abbiamo avuto la fortuna di fotografare dei grandissimi, in testa a tutti Rudolf Nureyev, Carla Fracci, Luciana Savignano, questi personaggi ritratti all'apice della loro carriera. Alla fine da tutti ho imparato una cosa: la serietà e la dedizione assoluta per quello che fai».

Facciamo l'elenco dei premi...

R: «Per la verità nessuna statuina. Non amiamo granché concorsi e premi. Ci hanno però invitato alla Triennale di Milano a tenere una lectio magistralis sul nostro lavoro con il gotha della fotografia, colleghi come Giovanni Gastel, Oliviero Toscani, Berengo Gardin e Mimmo Jodice».

L: «En passant ci hanno fatto notare che nelle nostre fotografie non ci sono più le persone ma c'è lo spazio, la rappresentazione dell'ascolto, che per noi è una cosa importante. Non avremmo fatto questo percorso se non avessimo sentito molto, oltre che visto tanto».

Qual è l'immagine della Scala dopo la «cura Lelli & Masotti»?

R: «Abbiamo in parte costruito e dato un'impronta dal punto di vista fotografico all'immagine del teatro. È stato un momento magico della storia, con produzioni che la gente ricorda ancora».

Per l'ultimo scatto preso dal vostro album: una storia a testa...

L: «Noi e i nostri assistenti al Teatro della Scala eravamo sempre vestiti in un certo modo e una volta il presidente della Repubblica Sandro Pertini che stavo per fotografare, mi bloccò e mi disse in maniera molto galante: Ma signora dovrei fargliela io una foto per come è elegante».

R: «Una occasione in cui non ci rimasi proprio bene. Feci vedere a Nureyev delle sue foto; il suo modo per dire che una fotografia non gli piaceva era strapparla».

L: «Il rapporto con Rudolf non era facile, ma da lui è arrivata una grande lezione: non basta scattare una bella immagine. Si deve andare oltre la tecnica.

Alla Scala si tira fuori l'anima, si deve vedere l'interprete, il vero personaggio».

Commenti