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"Le stelle, Marchesi e Galleria". Cracco racconta tutta la verità

"Aprirò il nuovo ristorante su cinque piani: è la scommessa di una vita intera"

"Le stelle, Marchesi e Galleria". Cracco racconta tutta la verità

L'appuntamento è in Via Victor Hugo, dove le sedie ribaltate sui tavoli guardano alla rovescia uno dei miti della cucina italiana. C'è un silenzio che parla, diciassette anni non sono pochi. Interrotto soltanto dai rumori tipici di un trasloco: tra poco lì dentro non ci sarà più nulla di quello che è stato, e Carlo Cracco comincerà la sua nuova avventura in Galleria Vittorio Emanuele: «Qui abbiamo iniziato a novembre 2000 con la prima cena. Lasciare un ristorante è lasciare una parte della tua vita, lasciare questo ristorante si può immaginare cosa sia. Se chiudo gli occhi posso vedere chi ha mangiato a quale tavolo e che cosa: sono passati presidenti, musicisti, artisti, personaggi di tutti i tipi. Diciassette anni, la parte più importante della mia vita. Ma non sono triste: questo luogo non chiude, ci sarà qualcos'altro. E Cracco va avanti. Noi andiamo avanti».

Siamo seduti a un piccolo tavolino in uno dei piani sotterranei: il vero successo è stato rendere un'icona un ristorante che si allunga solo verso il basso, senza finestre. Quasi un bunker, dove sono nati i segreti di uno dei cuochi più famosi d'Italia. E non è certo una stella Michelin in meno che lo rende meno affascinante. Le voci rimbombano un poco, si sente forte invece un po' di emozione. E se uno dovesse pensare di trovarsi davanti lo chef tirapiatti della tv, ha sbagliato indirizzo. Carlo Cracco, infatti, non urla. Niente «sì, chef!», viene naturale darsi del tu, in fondo - come dice nella pubblicità - fuori dalla cucina è solo Carlo. E Carlo comincia a raccontare, quasi sottovoce: «In Galleria apriamo a febbraio, il mio augurio è quello. Comunque ci siamo: appena prendiamo possesso delle cucine partiamo. Poi ci vorrà un mesetto per andare a regime».

C'è grande attesa.

«Cinque piani, uno completamente nostro per la produzione di pasticceria e cioccolateria. Sotto una cantina, pazzesca, da visitare e dove comprare. E per il pubblico due bar, la sala e anche un piccolo spazio eventi: penso lo chiameremo Salone Particolare. Con una vista incredibile sulla Galleria».

Cracco in Galleria: c'è più orgoglio, soddisfazione, che altro?

«Forse orgoglio, ma non per me. Sono 37 anni che sto in cucina, è il mio lavoro, la mia vita. È la meta di un percorso. Che non ho fatto da solo».

Com'è stato il primo giorno in cucina? Avevi 15 anni.

«Sì, ero da Remo a Vicenza. Ed è stato tragico. Anzi: tragicomico».

Ovvero?

«Mi sono scottato tutte le dita. I polpastrelli. Allora si usava il bidone dell'olio per mettere le ceneri del camino e il primo lavoro fu quello: prendo il bidone, era ancora bollente, mi restano attaccate le mani. Tutte e dieci le dita...».

Reazione in cucina?

«Si sono messi a ridere. Mi hanno detto: Come primo giorno non è male: forse ti conviene andare a casa. Magari cambiare mestiere».

Per fortuna hai resistito.

«Pensa che io non ero mai stato al ristorante prima di allora: sono una volta in trattoria con mia cugina quando abbiamo fatto la comunione. E non sapevo neanche la differenza tra una trattoria e un ristorante. Poi niente. Oggi è tutto diverso».

Proprio tutto?

«Beh, lo chef che urla è sempre esistito ed esiste anche oggi, solo che di questi tempi bisogna essere più moderati perché non si può insultare. Guai. Una volta invece era normale: se dovevi svegliare qualcuno, lo svegliavi così. Quando serve disciplina e severità qualche parolaccia fa capire se uno è adatto a questo lavoro. E di solito funziona».

Come sono gli aspiranti cuochi d'oggi?

«È più difficile trovare chi crede in questo mestiere: la percezione è che sia facile per tutti, invece è molto più difficile. Oggi chi sceglie di fare il cuoco ha dieci strade. Una volta ne avevi due: l'albergo o il ristorante. Se cannavi quelle, ti rimanevano ospedali e mense. Adesso se un ragazzo che non vuole venire a lavorare da Cracco, può farlo anche a casa. Ma la concorrenza è alta, per il successo serve sudore».

Dicono che sia un lavoro che toglie molto alla vita.

«Non è vero: tutti i lavori fatti bene tolgono qualcosa, anche se fai l'ingegnere o l'operaio specializzato. E una volta era molto più pesante essere impegnati il weekend. Avevi solo per te il lunedì, che era un giorno sfigato. Non è più così: oggi è come gli altri. La verità è che questo è un lavoro che ti fa dare tanto».

Cucini per te?

«No, mai. Se son solo a casa, me ne vado a mangiare fuori. Io cucino solo per gli altri».

E dove va a mangiare fuori uno come Cracco?

«Nei ristoranti dei colleghi: è giusto provarli, riconoscere il loro lavoro. Per rispetto e ispirazione. E poi c'è sempre da imparare».

Parliamo della stella persa?

«Certo, parliamone».

Diciamolo: in giro c'è chi l'ha presa con il sorrisone. Perché tanta indivia?

«Guarda: il paradosso è che abbiamo ricevuto molta più solidarietà da tutti i quelli che non fanno questo mestiere, e la cosa ti fa pensare. Son venuti clienti e amici a dirmi: Carlo, ma perché? Ma non è possibile. E io a dire loro: Cosa devo dirvi, lo so che non è possibile».

E invece com'è stato possibile?

«Partiamo da un punto: questo non è un locale che sta chiudendo ma che si sta trasferendo. Si sta trasformando in un progetto che è partito un anno e mezzo fa. Per cui: boh...».

E i colleghi?

«Sì, per carità, qualcuno ha chiamato per chiedere come mai. Però...».

Però?

«Diciamo che ho scoperto un mondo che mi sfugge e che la pensa diversamente da me».

Un tuo collega ha detto: «Cracco deve tornare in cucina».

«Secondo me è uno che non è mai venuto a mangiare da me: anche quando finivo di registrare Masterchef o Hell's Kitchen alle 8 di sera, prendevo la moto o la macchina e venivo qua senza passare da casa. Anche se ero cotto. Io. E anche qui i piatti volano, ma solo se succede che il cretino sono io, se mi accorgo di non avere tutto sotto controllo. Ho 16 cuochi e 34 dipendenti, in Galleria ne avrò il doppio: come faccio a non venire? Sull'insegna c'è il mio nome, non quello di un altro».

Che cos'è la Guida Michelin per uno chef?

«Sicuramente un incentivo. Ma ti faccio io una domanda: si può giudicare un ristorante soltanto dalle stelle che ha?».

C'è chi pensa di sì.

«Sicuramente no: un ristorante lo si giudica andando a mangiare. E non una, ma due o tre o quattro volte. Perché la giornata storta capita sempre a tutti, mentre un certo tipo di lavoro lo vedi nel tempo e solo così puoi dire di conoscere quel locale. E quando uno chef diventa affidabile, resta affidabile. Tutti abbiamo cali, non siamo macchine: è come un pilota, un atleta. Conta il percorso, quello che hai fatto e quello che andrai fare».

Per questo è stato sbagliato toglierti una stella?

«Se il Ristorante Cracco avesse davvero chiuso vuol dire che si sono sbagliati: ci hanno dato una stella di troppo».

Cosa pensi insomma delle guide?

«Quanti ristoranti ci sono in Italia? Facciamo circa 20mila. Quanti sono quelli che vanno davvero a provarli?»

Dicono qualche decina.

«Secondo me anche meno. E secondo te ci riescono? Fai il conto: se tu andassi tutte le sere al ristorante sarebbero 365 locali. Fai che i critici siano dieci: sono 3650 recensioni. Ne mancano circa 17 mila. E anche fossero venti...».

Quindi ci sono in giro recensioni di cene mai fatte?

«Ti faccio un caso a Milano: l'Essenza. Hanno dato la stella a uno chef che non c'era più, ce n'era un altro. Non penso proprio sia l'unico caso».

Hai detto Milano: quanto è cambiata?

«Quando sono arrivato nel 99 mi davano del cretino, con questo ristorante giù da basso. Ma dove vuoi andare?. Adesso è diventata la città più ambita: son cambiate anche le abitudini, non solo la città. E arrivano anche Romito, Beck... Sta diventando la Parigi d'Italia. Forse ci ho visto giusto».

È positivo tutto questo boom della ristorazione?

«C'è mercato per poter operare, e questo è positivo. Ma anche una corsa all'oro: sono tutti convinti che un bistrot, una pasticceria e un bar sia meglio di avere un negozio. Ci sta, per ora. Ma alla fine resterà solo quello che è buono».

Qualcuno però sostiene che mangiare a 200 e più euro...

«Perché: spenderne 500 per andare alla Scala? Chi capisce, chi c'è stato davvero in questi ristoranti, sa il perché. Io non ho mai visto cuochi miliardari, visto cuochi che lavorano come matti per crescere. Tipo Vittorio, per fare un nome. E allora? Perché solo da noi è uno scandalo?».

Solo in Italia?

«In Francia, per dire, spendere per mangiar bene è la normalità. Lì la cucina è cultura, fin da quando si preparavano i banchetti per i nobili. Arrivata la Rivoluzione, tutta quella conoscenza è stata messa a disposizione per la nuova borghesia. Il ristorante nasce così: preservare la cultura di cibo e vini e metterla sul mercato. Ma in Italia la gente pensa ancora che sia buttare via i soldi».

Come mai?

«Perché noi siamo un Paese di osterie e trattorie locali, dove si mangia tanto per spendere poco. Noi nasciamo provinciali. Prima di sradicare questo modo di pensare vorranno generazioni. Almeno cinque».

Eppure qualcosa è successo.

«Sì, negli Anni Ottanta è arrivato Marchesi. Io c'ero: li facevo io i suoi 3 maccheroni, ne cucinavo 4 per avere il sostituto. Si pagava 180mila lire, anche 200mila per un conto e la gente si lamentava: Per 3 maccheroni?... La sua era una provocazione».

Com'era lavorare per lui?

«Io ero un ragazzo con papà ferroviere e mamma casalinga, vedevo prezzi che a momenti non sapevo neanche scrivere. Ma mi interessava imparare. E lui è stato il mio primo maestro. Il Maestro».

Cosa ti ha insegnato?

«Che quello che costa non è il cibo: è il personale, è la formazione. È come alla Scala, si paga l'insieme: attori, ballerini, orchestra. Il prezzo serve per mantenere tutto, non per farci diventare ricchi. Stiamo meglio di una volta, è vero. E siamo più liberi: abbiamo la libertà di fare bene questo mestiere. Questa è cultura».

Una parola definitiva su Marchesi?

Il sorriso si fa un po' amaro. «È un grande peccato».

Diceva che tu eri un suo allievo ma non un discepolo. Cos'è successo davvero tra di voi?

«Ma niente. Solo che io non ho mai voluto essere Marchesi. Lui è stato il mio primo riferimento: ma il mio obbiettivo non era fare Marchesi, perché di Marchesi ce n'era uno. Nel mio piccolo, son riuscito ad essere Cracco».

Ti è rimasto qualche rimpianto?

«Lui era molto severo, come lo siamo tutti noi d'altronde. E in questo mestiere vivi a contatto con i tuoi ragazzi 20 ore al giorno, ci vai anche in vacanza. A volte le cose succedono senza un vero perché. Il suo preferito era Paolo Lopriore, perché ha lo stesso carattere: è un Marchesi che vive ancora. Paolo è come avrebbe voluto essere Gualtiero da giovane: non dimentichiamoci che lui ha aperto il suo ristorante a 46 anni. Paolo è il discepolo vero, ci sta. Non l'ho mai vista come una diminutio».

Al suo funerale non c'eri.

«Ero a Dubai. Avrei voluto».

Secondo te c'è stato un po' l'effetto sfilata?

Parte un sorriso, di quelli che sfoderava in tv quando prendeva in castagna un concorrente. «Ho chiamato Paolo, che è un amico anche se siamo agli antipodi, un po' come tutti noi ragazzi di Gualtiero: Oldani, Berton, Lehmann... Gli ho chiesto se sarebbe andato e lui mi ha risposto: Non vado a far sfilate. Alla fine ho fatto un tweet e noi vecchi ragazzi abbiamo mandato una corona».

E quelli che c'erano?

«Mi chiedo e ti chiedo: quanti di quelli che erano al funerale sono mai andati a mangiare da lui?».

Ne parli con rispetto. Perché allora dici che Marchesi è stato un grande peccato?

«Perché Gualtiero era una risorsa, il Paul Bocuse italiano. Ma in Francia Bocuse ha le 3 stelle dal 1965, a Marchesi invece le hanno tolte. Poi lui si è arrabbiato e si è lasciato un po' trascinare nel giochino delle tre carte, perché questo è stato. Io glielo avevo detto: Gualtiero, rispondi col silenzio. Ma in ogni caso l'Italia ha perso un riferimento: doveva essere portato a un livello superiore, era la Storia. Ha fatto la rivoluzione in un Paese dove la rivoluzione si fa solo a parole».

La rivoluzione a tavola.

«Faceva cucina francese: nel 77 nel Bonvesin de la Riva serviva la lepre con la pasta, che noi aborriamo. Poi nell'82 ha rilanciato la cucina regionale, fresca, senza panna. Venivano tutti da lui, con il mondo che girava al contrario. L'avrà fatto in maniera sua, provocatoria, ma era una persona intelligente. Andava valorizzato: se non ci fosse stato Marchesi, gente come Vissani o Antonio Santini non sarebbe esistita».

Siamo un Paese ingrato con chi ce la fa.

«Siamo un Paese che ha l'abitudine di cancellare le persone. E i ricordi. Dicevano che Marchesi non avrebbe mai fatto Masterchef: ma se nell'88 era in tv su RaiDue quasi tutti i giorni... Ha avuto successo? No, non era roba per lui, non era il momento. Però ci teneva tantissimo, e non solo per se stesso. Ma per chi lavorava con lui».

Per te è stato diverso.

«Nel 2009 la tv ha funzionato. Era il momento giusto. A qualcuno ha dato fastidio. Pazienza».

Molti non ti perdonano la pubblicità. Quella delle patatine, poi...

«Già. Eppure Marchesi ha fatto ben di peggio: Mc Donald's e Surgela. E allora: di che cosa stiamo parlando? E credi che Bocuse non abbia mai fatto pubblicità? Ma daì... La gente pensa che volessi diventare ricco, che fosse per vanità. Io invece l'ho fatto perché sono da solo e devo gestire tutto per crescere e migliorare. Per non dover chinare la testa davanti a nessuno. E avevo un progetto: quello della Galleria. L'ho fatto per questo».

A proposito di critiche sui social: la tua sostituta in Masterchef, Antonia Klugmann, ci è rimasta malissimo...

«Non vedevo il programma quando c'ero, figurati adesso. Però se decidi di fare tv o pubblicità, sai cosa ti può aspettare».

Perché hai smesso con la televisione?

«Non per litigi con i miei colleghi, come è stato scritto. Anzi: li sento sempre. E perché avevo da fare altre cose. Per esempio preparare il matrimonio».

Con Rosa, finalmente: dopo due figli.

«È comunque un bel passo, una grande emozione. E di figli ne ho quattro: Sveva e Irene di 15 e 11 anni, e poi Pietro e Cesare di 5 e 3. Mi seguiranno? Le grandi per ora si dedicano ai dolci, ma chissà. Io spero che qualcuno imiti la strada di quello scemo del padre, almeno uno su quattro... Ma devono decidere loro».

Vabbè, te lo chiedo: cosa fa Carlo Cracco la sera nel suo living?

Ride. «Ah, adesso lo sfrutto, visto che il ristorante è fermo mentre di solito arrivo a casa non prima dell'una e mezza. Poi intanto ho anche da seguire il Garage Italia, ed è un po' come nel '99: dicevano che non dovevo farlo perché la zona è brutta. Chi se ne frega: la facciano diventare bella».

E cosa farà Carlo Cracco in futuro?

«A me interessa il progetto: il Garage, la Segheria che va benissimo. E la Galleria: non è un capriccio, è una necessità. Non avevo più spazio e non volevo più mandar via le persone. E non si possono chiedere 200 euro senza dare in cambio comodità: adesso avrò il caffè, la pasticceria, una cantina che a Milano credo che non abbia nessuno. Avrò i servizi, il fumoir per esempio: io non fumo, ma non sono un medico, devo dare a chi paga la possibilità di non avere disagi. Qui stavo da Dio, potevo star fermo: invece ho scommesso».

Vincerai?

«Ho lavorato tanto e spero di non morire con la giacca bianca addosso. Però ora posso dire che il mio l'ho fatto, che ho dato.

Adesso, finalmente, me la godo».

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