Cultura e Spettacoli

"Racconto le donne costrette ad assaggiare il male assoluto"

Nel nuovo romanzo la protagonista Rosa è reclutata dalle SS per testare il cibo di Hitler

"Racconto le donne costrette ad assaggiare il male assoluto"

Rosella Postorino ha la tua età, è nata in Calabria, cresciuta in Liguria, vive a Roma. Risponde al telefono al mattino presto, perché poi va in ufficio, cioè comincia il suo lavoro, all'Einaudi. Fu Severino Cesari a chiamarla in casa editrice, per la collana Stile libero, nel 2006. Di Cesari, «figura amicale e paterna», dice: «Mi sarebbe piaciuto che leggesse anche questo mio libro. Un mese prima di morire mi chiese di mandarglielo; glielo spedii, ma non so se l'abbia iniziato, perché due giorni dopo tornò in ospedale». Il libro è Le assaggiatrici (Feltrinelli, pagg. 288, euro 17; già venduto all'estero, già in seconda ristampa in Italia), storia di Rosa Sauer e altre nove donne che nell'autunno del '43, a Gross-Partsch, vicino alla Tana del Lupo, sono costrette ad assaggiare il cibo di Hitler, per controllare che non sia avvelenato. Rosa Sauer non è nazista, è di Berlino, è lì per caso, ospite dei suoceri, mentre il marito è in guerra.

Partiamo dall'inizio. Come le è venuta l'idea della storia?

«Leggendo un trafiletto su un giornale, che titolava: Parla l'ultima assaggiatrice di Hitler ancora in vita. E io pensai: ma in che senso? Parlava di Margot Wölk, che aveva 96 anni, viveva a Berlino e confessava qualcosa che aveva taciuto per tutta la vita, che da giovane aveva fatto l'assaggiatrice per Hitler».

Che cosa raccontava Margot?

«Da un lato raccontava l'angoscia di questa mensa forzata, perché queste donne rischiavano di morire a ogni boccone, durante il pasto piangevano, e poi dovevano rimanere un'ora sotto osservazione. Però non poteva fare a meno di ricordare quanto quei piatti fossero buoni, gustosi: da tempo non mangiava niente di così buono, affamata com'era dalla guerra».

La colpì?

«Mi folgorò. Primo perché, anche nella dimensione della paura e dell'angoscia emergeva la dimensione del piacere. E poi perché raccontava la contraddizione del ruolo di Margot».

Una vittima a metà?

«Era una cavia, reclutata dalle SS solo perché si era rifugiata dai suoceri in questo paesino della Prussia orientale a 8 km dal quartier generale di Hitler. Da un lato era costretta a fare qualcosa di rischioso, era una vittima; ma dall'altro era privilegiata: mangiava bene, ed era pagata per farlo. E oggi deve essere considerata una colpevole, perché ha lavorato per Hitler: era collusa col male assoluto, anzi, ne ha salvaguardato la vita».

Ha incontrato la Wölk?

«L'ho cercata per mesi. Proprio quando stavo per spedirle una lettera ho saputo che era morta. Era anziana, non usciva più di casa da anni. Sono andata comunque a Berlino e ho parlato con la vicina, che le faceva la spesa. Mi ha detto che soffriva di vertigini e che era difficile a tavola. Poi sono stata in Polonia, a Gross-Partsch, che oggi si chiama Parcz, dove si possono visitare le macerie della Tana del Lupo. Anche lì, la guida non sapeva nulla delle assaggiatrici del Führer. Era un tema inedito, che valeva la pena esplorare. Ho impiegato tre anni a scrivere il romanzo».

Il nome della protagonista, Rosa, come l'ha scelto?

«È il mio nome all'anagrafe. Perché questa storia mi chiama in causa, mi spinge a chiedermi che cosa avrei fatto io, se fossi stata al posto suo».

Una domanda difficile?

«A posteriori è facile dire che una si sarebbe comportata da eroina... Ma in certi periodi storici anche non scegliere è una scelta, e più spesso capita che prevalga l'istinto di sopravvivenza».

La risposta alla domanda qual è?

«Nel romanzo Rosa si trova a spingersi fino alla complicità con il male, in maniera intima, attraverso il suo corpo. Ingerisce il cibo di Hitler, i loro corpi sono speculari. Ma l'intimità corporea con il male diventa ancora più profonda, perché avrà una relazione con un nazista».

Che cosa significa?

«Paradossalmente, questa relazione diventa il modo in cui il corpo ricomincia a vivere. Ricomincia a desiderare, a essere desiderato. C'è l'istinto di sopravvivenza e c'è questa pulsione di vita: due elementi che la portano a compiere delle azioni che prima sarebbero sembrate intollerabili».

La pulsione di vita vince su tutto?

«Non so se sia una regola. Ma accade anche nel gruppo delle mie assaggiatrici: questa mensa forzata diventa come un microcosmo con le rivalità, le amicizie, gli screzi della normalità. C'è qualcosa di profondamente umano, nonostante il regime le deumanizzi, le riduca a cavie».

Poi c'è il senso di colpa.

«Certo. È quello di chi è sopravvissuto. Come scrive Primo Levi in I sommersi e salvati, il lager è un sistema di coercizione; chi è riuscito a sopravvivere vuol dire che si è adattato meglio al sistema. Rosa si è adattata meglio di altri perché ne era complice».

Perché l'elemento fisico, come il cibo, è così forte?

«Perché nutrirsi è indispensabile per vivere. Ma qui il gesto primario di mangiare diventa un rischio mortale: nelle assaggiatrici convivono sempre fame e paura».

Il corpo di Hitler a volte non funziona...

«Hitler è onnipresente, ma Rosa non lo incontra mai. Ne sente parlare dal cuoco e da altre persone. Attraverso il cibo racconto il corpo di Hitler che si inceppa, e quindi la sua fragilità, che lo mostra come un essere umano tale e quale agli altri. D'altra parte questo corpo inceppato lo mette in ridicolo: la digestione, i tic al labbro, le pillole antiflatulenza... Cose disgustose, che creano un cortocircuito con l'Hitler presentato come una divinità dalla propaganda».

Che cosa ha letto per scrivere questo libro?

«Molti saggi, diari, romanzi per approfondire l'atmosfera del tempo, come quelli di Heinrich Böll, i romanzi autobiografici di Thomas Bernhard, Trama d'infanzia di Christa Wolf. I memoir di due donne segretarie di Hitler. E poi Soldaten, un libro di uno psicologo e storico, che raccoglie e commenta le intercettazioni dei prigionieri della Wehrmacht fatte dagli Alleati».

Che cosa c'entra la psicologia dei soldati?

«Ho concepito le assaggiatrici come un esercito, piccolo, senza armi: relegate in caserma, costrette a seguire schemi rigidi, stabiliti da altri, il che significa che la loro vita possa essere sacrificata in nome di una causa più grande. Avevo sempre a fianco La storia del Terzo Reich di Shirer e ho letto testi sulla alimentazione del Führer. Tra i libri che ho amato di più c'è A Woman in Berlin, diario anonimo di una donna berlinese».

Che cosa fa?

«Quando arrivano i russi nel '45 le prova tutte, pur di sopravvivere. Scende a compromessi per salvare la pelle e perde un pezzetto della propria dignità».

È quello che accade anche nel suo romanzo?

«È quello che può accadere agli esseri umani in condizioni estreme. E quindi sì, accade anche a Rosa Sauer. Senza una forma di giudizio racconto questa storia nella profondità delle contraddizioni umane.

Perché quello che voglio indagare, sempre, è la condizione umana, in qualunque tempo e luogo».

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