Controcultura

Il Cinquecento tormentato: opere troppo grandi per Forlì

Una mostra a suo modo travolgente, ma molti capolavori non avrebbero dovuto essere spostati

Il Cinquecento tormentato: opere troppo grandi per Forlì

Grande è l'emozione di trovarsi di fronte, tra «L'Eterno e il Tempo» nel museo di San Domenico a Forlì, un luogo inatteso, periferico e imprevisto, alcuni dei più travolgenti capolavori della pittura italiana del Cinquecento. Dopo la mirabile, e pressoché perfetta, mostra sul «Cinquecento toscano» in palazzo Strozzi a Firenze, dove, con più convincenti argomenti, si erano traslati due assoluti capolavori, la Deposizione di Pontormo dalla chiesa di Santa Felicita, e la Deposizione di Rosso Fiorentino dal museo civico di Volterra, con la plausibile motivazione di farli conoscere a un più vasto pubblico, a Forlì si è seguito il percorso inverso, di trasferire un gran numero di opere, anche celeberrime, e da sedi importantissime, in un bellissimo spazio totalmente fuori contesto.

Ciò che a Roma avrebbe avuto senso, a Forlì appare totalmente insensato. Non vedremo infatti, se non marginalmente, testimonianze del Cinquecento romagnolo, da Livio Modigliani (nato a Forlì) a Ferraù Fenzone (nato a Faenza, e sul quale sarà sempre più urgente allestire una mostra monografica, giusto tra Michelangelo e Caravaggio), ma alcuni vertici universali delle grandi scuole centro-italiane, fiorentina, romana, emiliana, marchigiana e, anche, parzialmente, meridionale. La mostra infatti sembra muovere da una sceneggiatura scritta, or sono sessant'anni, da Federico Zeri nel libro Pittura e controriforma che gira intorno all'«arte senza tempo» di Scipione Pulzone da Gaeta, maestro fino a quel momento sottostimato. Era forse inevitabile, dopo aver reso omaggio al talento critico di Roberto Longhi, soprattutto ritornando con ossessiva insistenza su Caravaggio, con esiti commerciali comparabili a quelli degli impressionisti, e, più marginalmente, sugli artisti padani, ferraresi e bolognesi, come fu in occasione della grande mostra, da me curata in palazzo Fava a Bologna, «Da Cimabue a Morandi», rifarsi alla lezione di altri maestri della critica.

Ed è così, per la statura del suo magistero, arrivato il momento di Federico Zeri, critico originale e corteggiatissimo, pur nella sua visione frammentaria e rapsodica, in attesa che tocchi a Giuliano Briganti, a Francesco Arcangeli, a Carlo Volpe. Certo l'appassionata filologia di Zeri, affiancata a un metodo poliziesco, al di là della sua visione asistematica, sembrava predisposta a fornire la trama per la ricostruzione di un tessuto storico lacerato. Una vera e propria sceneggiatura tradotta in mostra, nella vasta, e ipertrofica, esposizione di Forlì, almeno nel suo nucleo centrale. Ma, prima di inoltrarsi nel percorso dei maestri che si muovono a Roma negli anni della controriforma, la mostra impudicamente esibisce capolavori di prima grandezza di scuole toscana, veneta, lombarda.

Nel grande ambiente della restituita chiesa di San Giacomo, ci attende uno dei vertiginosi dipinti del primo manierismo, la grande tavola con lo Sposalizio della vergine di Rosso Fiorentino, strappato dalla basilica di San Lorenzo a Firenze, recentemente restaurato e particolarmente delicato. Il dipinto ha una freschezza sorprendente, con soluzioni di stesura veloce, a tratteggio, che, fuori dell'ordine del disegno fiorentino, sembrano prefigurare una stesura divisionistica, quasi fosforescente. Ma non è la sola sorpresa di questo preludio, scioccante e travolgente. Ogni grande capitale d'arte italiana ha offerto il suo tributo a Forlì: Parma con il Compianto sul Cristo morto di Correggio dalla Pinacoteca nazionale; Milano con la Caduta di San Paolo di Moretto da Brescia dalla Chiesa di Santa Maria presso San Celso, alla quale certamente si ispirò il Caravaggio per il dipinto di analogo soggetto nella chiesa di Santa Maria del popolo a Roma, stranamente assente a Forlì; Loreto con più di un'opera di Lorenzo Lotto dalla Santa Casa; Firenze con la Sacra famiglia di Pontormo dagli Uffizi.

La voracità di arricchire l'impianto di Zeri impone di alzare la posta e salire sempre più in alto. Arrivano così a Forlì il più bel dipinto di Tiziano di Capodimonte, il ritratto di Paolo III e i nipoti e anche Il ragazzo che soffia su un tizzone acceso di El Greco. E poi, dal Duomo di Perugia, la sublime Deposizione di Federico Barocci, fino a ben due dipinti di Caravaggio, per puro sfizio in una mostra sul Cinquecento, la Madonna dei Pellegrini, per l'ennesima volta sottratta alla chiesa di Sant'Agostino a Roma, mutilando il percorso caravaggesco romano, e Il sacrificio di Isacco degli Uffizi, tra le opere capitali del museo. Perfino il museo archeologico di Napoli è rapinato, e vulnerato, privandolo dell'Antinoo Farnese. Veri e propri trasferimenti forzati dalle più grandi chiese e dai musei più importanti. Appare incredibile che il ministero abbia autorizzato lo spostamento di opere sensatamente irremovibili, essenziali per il gran tour di qualsiasi viaggiatore o studioso, e soprattutto per gli studenti delle scuole. Portare il più grande nel più piccolo appare una insensatezza, con il risultato di spostare capolavori, prelevati da chiese e musei di prima grandezza, per confinarli in una mostra raccogliticcia a Forlì, con la maliziosa collaborazione di alcuni spregiudicati professori delle Università italiane, uno dei quali strettamente legato al mercato antiquariale, cui subordina la cultura dei musei e i principi della conoscenza, per privilegiare i valori commerciali.

Una volta liberata la mostra da queste ingombranti e meravigliose presenze, e dal sovraccarico di perfino incongrui capolavori, come la Pietà del Carracci, che deve stare a Capodimonte, non a Forlì, «unanimemente considerata tra i capolavori di Annibale e di tutta la pittura del Seicento», come indicano le guide, vi è il percorso zeriano con le opere di Gerolamo Siciolante da Sermoneta, Girolamo Muziano, Cesare Nebbia, Federico Zuccari, in una selezione utile ed esaudiente. Si aprono davanti ai nostri occhi gli smaglianti colori, in un immacolato candore, di Giuseppe Valeriano e Scipione Pulzone, artisti di una incontaminata purezza che rispecchia una fede in Dio implacabile e incorruttibile, espressa «in forme rigorosamente sterilizzate, polimentate e lucidate» (Zeri), pervenendo così «a una pittura senza tempo e senza luogo». Perfezione, linearità, castità, frigidità. Forse i curatori della mostra hanno pensato che Scipione Pulzone non bastava per rendere la mostra «commercialmente attraente», ma per quanto mi riguarda è qui che ne ritrovo la ragione e il senso. E, svoltando l'angolo, nella straordinaria serie dei dipinti di Bartolomeo Passerotti, perfetto antagonista, nella ritrattistica e nei soggetti religiosi, di Scipione Pulzone. Irresistibili le Pollivendole della Fondazione Longhi, dove lo spunto realistico e di genere si trasfigura in una tensione intellettuale irriducibile, di evidenza minerale, raggiungendo uno dei punti più alti del manierismo, iperbole di naturalismo e di artificio. Oltre a questa misura l'arte non può che abbassare la guardia della forma per restituirsi alla vita, come avverrà prima in Annibale Carracci, e poi in Caravaggio. Non fosse che la meraviglia della sala è contaminata dalla presenza di un'opera spuria, di ispirazione caravaggesca, la cui insufficiente qualità è evidenziata proprio dal confronto con il meraviglioso Passerotti della stessa collezione Longhi.

Si tratta del Fanciullo morso dal ramarro, copia evidente da Caravaggio, di pittura legnosa e greve, della cui presenza i curatori devono ringraziarmi perché io, in qualità di assessore ai beni culturali, l'ho espunta a Palermo dalla mostra sui pittori caravaggeschi, «Da Ribera a Luca Giordano», voluta dalla Fondazione Sicilia a villa Zito. E loro, pur dubitandone almeno uno dei curatori, Andrea Bacchi, l'hanno esposta, ancora una volta, come originale.

Una mostra tormentata.

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