Controcultura

La cucina italiana più che un mito è un marketing...

Alberto Grandi si è preso la briga di confutare il mito della cucina italiana

La cucina italiana più che un mito è un marketing...

Occorre dare quattrini ad Alberto Grandi. È un professore di Parma, classe 1967, insegna Storia delle imprese e ha appena scritto Denominazione di Origine Inventata. Le bugie del marketing sui prodotti tipici italiani (Mondadori). Occorre fornire Grandi di numerose risorse economiche, ad esempio andando in molti a comprare il suo libro, affinché diventi ancora più famoso, di successo e si possa permettere di scrivere ciò che scrive senza l'incubo che qualcuno gli tocchi lavoro e stipendio. Insomma lo sapete come la pensiamo da queste parti: la libertà economica è un contenuto imprescindibile della libertà tout court. Alberto Grandi si è preso la briga di confutare il mito della cucina italiana. Insomma combatte contro la nuova religione del XXI secolo, che non ammette eresie. E per di più si permette di farlo criticando le favole italiane. È un libro pazzesco, convincente, ben scritto, controcorrente e soprattutto liberale. Riesce a difendere il Tip e il Ceta, i due accordi di commercio internazionale a cui socialisti e sovranisti e molti presunti liberali si stanno fieramente opponendo. Il libro lo dovete leggere, ma qualche spunto lo dobbiamo fornire.

Intanto il mito della cucina italiana, un po' come quello della dieta mediterranea, è una geniale invenzione industriale figlia del boom economico del dopoguerra. La tradizione si inventa, non raccontiamo palle. Prima l'Italia era fatta da chi mangiava polenta e da chi non la mangiava. Stop. Le grandi tradizioni rinascimentali, sulle quali abbiamo costruito un favoloso film che siamo riusciti a vendere all'estero, erano confinate a pochi privilegiati, senza alcun effetto di spill over, direbbero oggi gli economisti, sulle persone al loro vicine. La scelta di puntare sulla cucina italiana come «principale fattore di sviluppo, ha portato alla rinuncia di una politica di rilancio dell'industria basata sulla ricerca, sugli investimenti, sull'innovazione di processo, sulle nuove fonti energetiche». È stato puro marketing. La cosiddetta tipicità dei nostri prodotti è un altro favoloso bluff: «Per quanto riguarda nello specifico i prodotti tipici, in Italia, molto di più che nel resto di Europa, si è affermata l'assurda pretesa di codificare la tradizione per decreto, senza chiedersi se questa ricerca spasmodica di una certificazione qualsiasi abbia o meno una qualche utilità per l'economia del territorio». Adesso c'è da immaginarsi qualcuno che inizia a dire: il solito esagerato. Perfetto. Allora ci viene voglia di sfidare il liberale scettico, con una prova del fuoco. Chi non conosce il pomodoro Pachino e la sua Indicazione geografica protetta (Igp) in provincia della sicilianisima Siracusa? Ebbene tutte balle. Il Pachino ha una data di invenzione, ci dice Grandi, e una data di nascita, non così remota. Aggiungiamo noi. Si tratta del 1989 e la sua nascita è dovuta «a una delle più importanti aziende al mondo nel settore delle ricerche genetiche in campo agricolo: la Hazera Genetics».

Vaglielo a spiegare a Carlin Petrini, Coldiretti&Co.

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