Cultura e Spettacoli

Colombati, che bella "Estate" incendiaria

Convince il nuovo romanzo dello scrittore romano: c'è ritmo, melodia, stile

Colombati, che bella "Estate" incendiaria

Pasticciare mentre l'albergo di famiglia, per un banale corto circuito, va a fuoco. Al romano Jacopo d'Alverno basta un attimo di appannamento mentale per provocare il crollo della sua esistenza. La moglie Eleonora, disgustata dall'inettitudine del consorte, coglie al volo l'occasione per smettere di amarlo, e quanto alle rovine fumanti del resort sul Tirreno, se ne impossessa in un batter d'occhio lo zio del protagonista, un ottantenne ricco sfondato che sta per sposare una giovane polacca.

Il nuovo romanzo di Leonardo Colombati, Estate (Mondadori, pagg. 258, euro 19) sembra una variante sulla terraferma del Lord Jim di Conrad: messo alla prova, l'eroe, invece di dimostrare di che stoffa sia fatto, rivela la sua viltà. Peccato solo che Jacopo non sia mai stato un eroe: la sua unica azione memorabile è consistita nell'aver scambiato qualche colpo di racchetta al Foro Italico con il grande Gerulaitis, tanti anni fa. È dunque inevitabile che il racconto si dispieghi nelle dimensioni del ricordo, dell'elaborazione del lutto causato dall'abbandono della moglie e soprattutto della ricerca del tempo perduto: operazione attuata grazie a un colpo di fortuna che garantisce la tenuta narrativa del romanzo. Mentre fa la fila in farmacia, infatti, Jacopo s'imbatte in Astrid, promessa del tennis nazionale diventata un'affermata giornalista tv. La «cattiva letteratura» di un biglietto adorante indirizzato dall'adolescente Jacopo non è caduta nel vuoto: Astrid l'ha conservato trent'anni come un cimelio. Basterà per un invito ad accompagnarla ad Oslo dove deve recarsi per seguire il processo ad Anders Breivik, il fanatico cristiano che nel 2011 trucidò 77 ragazzi. Seguendo il corso del viaggio nella terra dei fiordi, il lettore ha modo di imputare a una tragedia domestica la mancanza di carattere del protagonista: una sua cugina, Francesca, si uccise dopo essere stata sottoposta dal destino a una sbrigativa dimostrazione della fragilità umana. Se il mondo di Jacopo è tutto rappresentazione e niente volontà, ciò dipende dalla morte di Francesca. Questa è anche la ragione per la quale Jacopo non fa che sognare: fra il sogno e la morte c'è un rapporto di fratellanza, che alla fine riverbera sullo stile.

La pagina di Colombati possiede melodia, ritmo e icasticità, tre virtù che i romanzieri italiani hanno frettolosamente rimosso dai loro decaloghi; ma è anche costituita da una scrittura spettacolare, cioè, in senso lato, onirica: da qui lo scatenato name-dropping di celebrità, distribuiti come droghe euforizzanti. Questi fuochi d'artificio, però, non producono le grigie estasi senza causa di un D'Annunzio. Il fatto è che la borghesia di Colombati non è quella, gesuitica e raziocinante, di Albinati, né quella, calvinista e discreta, di Montefoschi. È una borghesia attratta da un'ipotesi che il cattolico Fitzgerald saggiò nei suoi romanzi: e se la felicità sentimentale, lungi dall'essere il premio del successo economico, non ne rappresentasse, piuttosto, il riscatto? Che questa speranza sia attiva lo dimostra la lettera che Jacopo scrive (senza spedire) a Breivik, apprezzando la scelta dell'assassino di aver fatto propria la formula con cui il filosofo liberale John Stuart Mill prese le distanze dall'utilitarismo di Bentham: «Una persona con una fede ha altrettanta forza di centinaia di persone che hanno solo interessi».

E questo lo sapevamo già, ma il problema è come articolare una tesi simile in un contesto secolarizzato, se non apertamente scettico.

Commenti