Controcultura

Che colpo di genio fare della mente un genere letterario

Che colpo di genio fare della mente un genere letterario

È dai tempi dei libri di Sigmund Freud che i casi clinici di malati psichiatrici sono diventati interessanti quanto personaggi di romanzi, sarà perché in ciò che non funziona nella loro mente riflettiamo su noi stessi e sull'essere umano. Si pensi ai bestseller di Oliver Sacks, come il famoso L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello, che ha lanciato un genere di divulgazione scientifica, tra cui i recenti L'uomo che credeva di essere morto e La donna che morì dal ridere di Vilayanur Ramachandran.

Oggi la casa editrice Erickson inaugura una nuova collana, intitolata «Il Cervello e le Idee», affidandola a uno straordinario neuroscienziato come Giorgio Vallortigara, e il primo libro a uscire è L'uomo che non c'era, di Anil Ananthaswamy (seguirà a breve Borges e la memoria, di Rodrigo Quian Quiroga). L'uomo che non c'era è più o meno lo stesso dell'uomo che credeva di essere morto di Ramachandran, altrimenti detta sindrome di Cotard, una particolare patologia che fa credere a chi ne soffre di non essere vivo, ma nel saggio di Ananthaswamy (lo so, è un nome difficile da ricordare anche se non si soffre di Alzheimer) le malattie e i casi narrati sono tantissimi.

Certo che più le neuroscienze progrediscono, più l'idea di identità scricchiola, così come il «cogito ergo sum» di Cartesio (perché c'è chi cogita ma non pensa di esistere). Anche senza avere particolari patologie, la nostra stessa identità è precaria nel corso del tempo. C'era arrivato già Marcel Proust, accorgendosi, nel corso della sua Recherche, di quanto l'io sia fragile, mutevole negli anni, e sottoposto alla precarietà della memoria (e dei neuroni): si muore molto più di una volta nel corso di una vita, poiché cambiamo diventando estranei a noi stessi senza accorgercene. Come succede anche ne L'ultimo nastro di Krapp di Samuel Beckett, dove l'espediente di registrarsi ogni giorno per non perdere se stessi fallisce miseramente: Krapp, da vecchio, riascolta se stesso da giovane e non capisce chi sta parlando, non si riconosce. Inoltre, più conosciamo il cervello, più viene meno il concetto di libero arbitrio, un problema che si era già posto Nietzsche: «Che cosa mi dà il diritto di parlare di un io e perfino di un io come causa dei pensieri? Un pensiero viene quando è lui a volerlo, e non quando io lo voglio».

Ne sa qualcosa chi è depresso o ha impulsi suicidi, spesso basta un antidepressivo per fargli cambiare idea o stato d'animo, in altri termini basta modificare il funzionamento dei propri neurotrasmettitori. Così come le crisi epilettiche possono portare a esperienze mistiche (ne sapeva qualcosa Dostoevskij), oppure l'uso di droghe a vedere mondi diversi (ne sapevano qualcosa pressoché tutti gli scrittori decadenti e della beat generation). Tanto che lo psichiatra Humphry Osmond, colui che dette la mescalina a Aldous Huxley, studiò gli effetti di LSD, mescalina e psilocibina sulla mente e coniò il termine psichedelico, disse: «Per veder l'inferno o alzarti in volo angelico, basta un pizzico di psichedelico».

Ci sono patologie in cui si può perfino non sentirsi più nel proprio corpo, o vedersi vicino a un proprio doppio (si chiama effetto Doppelgänger), dove si può arrivare a tentare di uccidere il proprio doppio, come accade nel William Wilson di Edgar Allan Poe, o nel racconto L'Horla di Guy de Maupassant.

Tra i casi più curiosi narrati da Ananthaswamy c'è chi soffre di BIID, acronimo di body integrity identity disorder, ossia il desiderio di amputarsi un arto perché lo si ritiene estraneo a sé, c'è perfino una comunità online. Per alcuni, è anche un'inclinazione sessuale, coloro che sono attratti dalle persone amputate (i devotee, si trovano perfino nei siti porno). Chi aspira a farsi amputare un arto (i wannabes), chi impazzisce se non riesce a farselo amputare (i need-to-be).

Insomma, quando qualcuno vi chiede se potete dargli una mano, state attenti, potreste diventare i protagonisti di un nuovo libro della collana di Vallortigara: «L'uomo che dette una mano a un malato di BIID».

Commenti