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"L'Accademia del Nobel? Un gerontocomio che premia canzonette"

L'affondo del presidente della Marsilio: «Chi la presiede non ne rappresenta la missione»

"L'Accademia del Nobel? Un gerontocomio che premia canzonette"

Venerdì il mondo è stato spiazzato dalla notizia che nel 2018 il Nobel per la Letteratura non sarà assegnato. Pausa, per lo scandalo che ha colpito l'Accademia: il marito di Katarina Frostenson, - poetessa membro dell'istituzione svedese dal 1992 è stato denunciato per molestie da 18 donne. Ma oggi quanto vale davvero per la cultura globale il Nobel per la Letteratura? Risponde Cesare De Michelis, editore oggi presidente di Marsilio letterato e accademico.

Il senso del Nobel in sintesi.

«Identificare le eccellenze nella cultura occidentale, con grandi aperture, inclusive di culture altre».

Inclusione secondo visione o secondo tradizione?

«Pensiamo all'Italia: gli italiani dei primi atti del Nobel sono figure rimaste di secondo piano nella nostra storia letteraria, dalla Deledda a Dario Fo a Quasimodo. Sì, anche Fo: era poi un signore che scopiazzava Ruzante, la commedia medievale, il teatro dell'arte. Tutti costoro però il Nobel li ha premiati nel tentativo di ricucire le fila di una cultura europea umanistica che, soprattutto nel dopoguerra, perdeva pezzi da tutte le parti».

Lo stesso accadde con Pasternak?

«Tutti i Nobel agli oppositori del comunismo avevano lo stesso senso: tenere salda una visione del mondo che si opponesse al nostro essere belve dal volto umano».

Ora che il mondo è globalizzato, però, che senso può ancora avere questo Premio?

«Il mondo è globalizzato per connessione, non per comprensione. Il massimo che torna fuori leggendo i libri che scriviamo è qualche nostalgia dell'Umanesimo: per carità, inginocchiamoci al suo cospetto, ma sono sette secoli che lo adoriamo».

Da dove nasce questa fatica?

«È la fatica di costruire un modello culturale nella continua tensione anche nel Nobel tra il localismo disperato e la cultura globalizzata, la quale non soddisfa le nostre esigenze spirituali e ci lascia sguarniti».

L'Accademia di Svezia potrebbe fare lo sforzo salvifico?

«L'Accademia di Svezia così com'è al momento è un gerontocomio e i gerontocomi non possono governare le metamorfosi del mondo. Di qui la sproporzione sempre più evidente tra la missione del premio e la modestia delle istituzioni che lo presiedono».

Che cosa deve cambiare?

«Innanzitutto le persone: si estromettano le poetesse che si fanno abbindolare dai fotografi, esse non sono segno di leadership. Ma questi sono dettagli pettegoli. L'elemento interessante è che siamo di fronte a una svolta possibile. La cultura che abbiamo non è all'altezza dei tempi che viviamo. Sono troppi anni che non abbiamo libri che siano veri punti di riferimento. La nostra letteratura è effimera, estemporanea, legata al giornalismo o, nella migliore delle ipotesi, alle scienze umane, che si sono rivelate una catastrofe».

In questo il «nuovo» Nobel potrebbe dettare la linea.

«Se io fossi uno scrittore svedese e mi chiamassero in Accademia ne sarei orgoglioso. Ma poi dovrei mettermi a pensare a come governare l'identità morale della comunità».

Un vasto programma.

«Mettiamola così: se obiettivo della letteratura è diventare altrettanto effimera della saggistica giornalistica - per cui si scrivono perlopiù poesie più o meno ermetiche o destrutturate o romanzi gialli - forse invece che i cantautori il Nobel potrebbe cominciare a premiare qualche pensatore, qualche filosofo».

Riflessione morale contro cultura delle canzonette.

«Riaffermare l'esistenza di valori vuol dire ricreare una rosa dei venti, una mappa, uno strumento di interpretazione del mondo che duri più di 24 ore. Un bel compito, per l'Accademia di Svezia».

Tocca al Nobel?

«Tocca al Nobel, come ad altre istituzioni del genere, fare proposte rispetto al vuoto che si è creato e rimettere in moto una voglia di fare ordine, piantare pietre miliari, definire percorsi. Tocca anche al Nobel, perché ha un vantaggio: la notorietà internazionale, la voce più alta. Siamo poveri di quelle cose del passato come i grandi filosofi greci, latini, cristiani, illuministi, idealisti: gente su cui per duecento anni ci siamo arrovellati come punto di riferimento solido. Adesso abbiamo Bernard Henri-Lévi, che è pure mio amico, e altri come lui: brillantissimi, diligenti interpreti degli umori della modernità tramontante. Ma poi con loro non si vede l'alba».

I vincitori scelti dal Nobel dovrebbero diventare simbolo di una nuova cultura.

«La scelta dei vincitori ha un valore simbolico ed emotivo: forse quei nomi non saranno le colonne su cui costruiamo la civiltà, ma possono almeno cercare di non radere al suolo quel che ne resta. Ero contrario a Bob Dylan, perché il polverone mediatico del cantar canzoni è effetto di una cultura della polvere: gira veloce ed è carina.

Ma è priva di quel sentimento e pensiero che stavano in Omero o in Dante».

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