Cultura e Spettacoli

Rifondò il giornalismo, impose uno stile e inventò una scrittura

Il suo "New Journalism" fece scuola (fino a oggi), col romanzo "Il falò delle vanità" segnò un'epoca

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Oggi, primo giorno tra i celesti; prima di fare un tour lisergico in Paradiso e inchiodare San Pietro all'angolo della sua insipienza, pasteggio a coccodrilli. Leggo nel pensiero di Tom Wolfe, che sta leggendo, ora, da un leggio di nuvole, i referti mortuari pubblicati da Est a Ovest, che ricordano il leggendario giornalista, lo collocano tra i grandi esteti, tra i guru del dandismo letterario contemporaneo. Si starà divorando i coccodrilli di mezzo mondo, disintegrandoli in un poderoso rutto, Tom, completo impeccabile, cravatta miliare come una spada, cappello giusto e sguardo da bastardo al cubo. Tutto quello che scriviamo, in effetti, lo dobbiamo a lui, siamo tutti figli della penna di Tom, abbiamo il suo inchiostro nelle vene. «Mi era chiaro fin da subito. Intorno ai sei o ai sette anni. Mio papà era il direttore di un giornale che si occupava di agricoltura, si chiamava The Southern Planter. Non si pensava come scrittore, mio padre era uno scienziato, un agronomo. Ma a me dava l'idea che lo fosse. Io volevo esserlo».

Nel 1991 Tom Wolfe reclama George Plimpton, giornalista della Paris Review, nel suo locale preferito, a East Side, New York. Il locale si chiama Isle of Capri. Si mangia all'italiana. «Si deve abituare, sono un tipo versatile», dice lui, Tom, il Prometeo del giornalismo moderno, ostentando un completo marrone. Di solito, Tom veste in imperdonabile bianco. «Versatile». Tra gli aggettivi che, ora, oggi, ne recepiscono la morte c'è questo. «Pirotecnico». All'epoca, 27 anni fa, Tom Wolfe giocò a ricordare la sua infanzia. Nato in Virginia, Richmond, ai primi di marzo del 1930, studi a Yale, esordio giornalistico come cronista dello Springfield Union, una ossessione per il quasi omonimo Thomas Wolfe «I miei genitori facevano fatica a convincermi che non era mio parente: cosa ci facevano allora i suoi libri nella biblioteca di casa? Ad ogni modo, divenni un fan di Thomas Wolfe». E per Napoleone. «Amavo Napoleone. Avevo sei anni e amavo Napoleone. Perché era piccolo come me e aveva dominato il mondo. Se è per questo, amavo anche Mozart». La prima impresa letteraria è spassionatamente impossibile. «A otto anni. Cominciai a scrivere la biografia di Napoleone».

Vent'anni dopo, Tom Wolfe, pieno di spirito napoleonico, è assunto dal Washington Post; nel 1962 passa al New York Herald Tribune. Nasce qui il mito di un giornalismo dal ritmo asfissiante, al di là della cronaca, asfittica, della «notizia», paludosa, impomatata, e dei giornali impantanati nella noia. Tom Wolfe propugna una scrittura narcisistica e brillante, letterariamente evoluta, un patchwork delle meraviglie, un luna park retorico, «che adoperi la strategia del romanzo mescolandola con ogni altro dispositivo conosciuto in prosa... ogni schema è distrutto, ogni schermo sparito, lo scrittore è a un passo dal coinvolgimento assoluto del lettore, una cosa che Henry James e James Joyce hanno solo desiderato senza mai raggiungere». Dirà, teorizzando, nel 1973, dal pulpito di The New Journalism, l'antologia dove arruola, Mosè del Nuovo Giornalismo, i suoi discepoli, Truman Capote e Joan Didion, Michael Herr e Norman Mailer, Gay Talese e Hunter S. Thompson. Il libro determinante, tuttavia, è del 1965, The Kandy-Kolored Tangerine-Flake Streamline Baby, dove Tom Wolfe raccoglie alcuni pezzi usciti su Esquire, che descrivono, con sfarfallio di termini gergali e tango verbale, il mondo dei customozzitari di auto, l'epoca del pop, l'epica dei beat, le fobie delle starlette. Il libro fu una rivelazione stilistica, tradotto quasi subito da Feltrinelli come La baby aerodinamica kolor karamella. Il resto è la storia della più raffinata e rapace penna del giornalismo occidentale, che si pensava il Balzac dei tempi moderni. Brutalmente semplificato a Il falò delle vanità da cui il film di Brian De Palma Tom Wolfe è stato un bravo romanziere leggetevi Un uomo vero e Io sono Charlotte Simmons e un saggista rivoluzionario. Dotato di un sapido talento per i neologismi new journalism è suo nel 1970 s'inventa la parola Radical chic attaccando al muro l'allegra moglie di Leonard Bernstein, che in un attico di Park Avenue aveva ospitato stuoli di vip per un party in favore delle Pantere Nere, i marxisti-leninisti afroamericani. «Ero totalmente bloccato. Capii cos'era il blocco dello scrittore. La paura di non riuscire a fare ciò che hai promesso a qualcuno la paura che non valga la pena farlo». Così Tom Wolfe racconta il giorno in cui s'inventò il modo nuovo quello di oggi, questo di fare giornalismo. Erano i primi Sessanta. Era nel dominio del delirio. «Lavorai per tutta la notte, nel modo più rapido, come se scrivessi a un amico».

Mai sindrome da pagina bianca fu tanto benedetta. Forse per questo vestiva sempre di bianco, Tom Wolfe. Vizioso, splendidamente cinico, angelico.

Sia onore, ora, all'arcangelo dei giornalisti.

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