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Quante trappole da Pyongyang

Quante trappole da Pyongyang

Buon sangue non mente. Per capirlo bastavano gli infruttuosi tentativi di dialogo con Kim Jong Un e suo padre Kim Jong Il già avviati dai predecessori di Donald Trump. Tentativi affossati dai cinque dietrofront con cui papà e figlio si sono rimangiati, in passato, ogni impegno sul nucleare. Ma questa volta il gran rifiuto di Kim, pronto a cancellare il summit di Singapore con Donald Trump del prossimo 12 giugno, è stato favorito anche dagli errori del presidente americano e del suo Consigliere per la Sicurezza Nazionale John Bolton. Due errori decisivi nell'influenzare la retromarcia nordcoreana e assai più determinanti rispetto alle manovre militari congiunte di Washington e Seul utilizzate da Pyongyang per spiegare la propria rinuncia.

Il primo a sbagliare è stato un Trump fin troppo plateale nel far intuire il personale interesse in un vertice studiato per rilanciare la propria immagine politica. Un Trump caduto mani e piedi nella trappola di chi lo lusingava chiedendogli se quel summit potesse valergli un Nobel per la Pace. Domanda a cui il presidente non ha esitato a rispondere affermativamente dimostrando l'importanza dell'intesa con l'ex «rocket man». Tutti elementi che hanno regalato al dittatore la convinzione di potersi ritirare e tornare in partita dopo aver alzato la posta.

E a suggerire a Kim la necessità di alzare la posta hanno contribuito le uscite di un John Bolton inviso a Pyongyang sin dai tempi del suo incarico d'ambasciatore Usa all'Onu. Un Bolton terribilmente incauto nel proporre come modello negoziale per il summit quello usato nel 2004 per farsi consegnare da Gheddafi i progetti nucleari della Libia. Una Libia che gli Stati Uniti non esitarono a bombardare solo sette anni dopo. Proprio lo spettro di uno scenario libico ha indotto Pyongyang a tirarsi indietro facendo capire che il disarmo nucleare non può essere una precondizione. Ma sugli errori della Casa Bianca è stata prontissima a lucrare anche la Cina del presidente Xi Jinping, assai preoccupato dalla prospettiva di ritrovarsi estromesso dai rapporti tra Pyongyang e Washington e dover rinunciare al monopolio politico-negoziale nei rapporti con la Corea del Nord esercitato per oltre 70 anni. Un Xi Jinping prontissimo a sfruttare, attraverso i suoi emissari a Pyongyang, i passi falsi di Washington.

E tuttavia errori americani e manovre cinesi poco avrebbero potuto senza la sperimentata capacità nordcoreana di farsi beffe degli impegni negoziali. Nel 2005 Kim Jong Il, padre di Kim, fu il primo ad accettare un negoziato a sei con gli Usa e altre potenze regionali per discutere «l'abbandono delle armi e delle sperimentazioni nucleari». Salvo sorprendere tutti realizzando, un anno dopo, il primo test nucleare. Washington ci cascò di nuovo nel 2008 quando l'amministrazione Bush tolse la Corea del Nord dalla lista delle nazioni terroriste promettendole aiuti economici in cambio dell'impegno a disattivare le infrastrutture nucleari. Impegno calpestato solo un anno dopo quando Kim Jong Il spedì a casa gli ispettori Onu. Che il figlio non fosse diverso dal padre l'aveva già capito a proprie spese Barack Obama. Nel febbraio 2012 un Kim Jong Un a inizio carriera gli fece intendere d'esser pronto a bloccare il reattore nucleare di Yongbyon e aprire il paese agli ispettori nucleari. Convinto dal giovane Kim, Obama non esitò a promettere alla Corea del Nord forniture di cibo e nuovi aiuti economici. Un'illusione cancellata solo un mese dopo quando il giovane dittatore stracciò anche quell'accordo minacciando il lancio in orbita di un satellite.

A Pyongyang, insomma, nulla di nuovo sotto il sole.

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