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I giudici snobbano l'Ue: "Sgarbi e Sallusti in cella"

Il tribunale di Monza ha inflitto sei e tre mesi per diffamazione. Ma Strasburgo proibisce il carcere

I giudici snobbano l'Ue: "Sgarbi e Sallusti in cella"

Milano Al tribunale di Monza, evidentemente, non leggono le sentenze della Corte Europea dei diritti dell'Uomo: oppure se ne infischiano. La Corte di Strasburgo ha sanzionato l'Italia, stabilendo che punire con il carcere un reato commesso a mezzo stampa è una inaccettabile violazione della Convenzione europea dei diritti dell'Uomo (articolo 10: «Ogni persona ha diritto alla libertà di espressione»). Eppure giovedì pomeriggio il giudice Francesca Bianchetti infligge sei mesi di carcere senza condizionale al critico Vittorio Sgarbi, e tre mesi - anch'essi senza condizionale - al direttore del Giornale Alessandro Sallusti. A rendere ancora più visibile il contrasto tra la sentenza di Monza e le decisioni della Corte europea, c'è un dettaglio cruciale: Sallusti non era imputato di diffamazione ma semplicemente di omesso controllo, il reato di epoca fascista che considera il direttore colpevole di qualunque notizia uscita sul suo giornale.

Anche stavolta c'è di mezzo Antonino Di Matteo, il pm palermitano titolare dell'inchiesta Stato-Mafia, e instancabile autore di denunce e querele verso gli organi di stampa non allineati al teorema della trattativa. Nell'articolo pubblicato sul Giornale il 2 gennaio 2014, Sgarbi metteva in discussione la reale pericolosità di Totò Riina, il boss corleonese autore di minacce a Di Matteo durante i colloqui all'ora d'aria. «E qual è il suo potere reale? Da vent'anni sta in un carcere di massima sicurezza, ogni sua azione e suo pensiero sono controllati». E le minacce del boss sarebbero rimaste chiuse nel cortile del carcere, se non fossero state divulgate nei processi: «Gli unici complici che ha Riina sono i magistrati che diffondono i suoi pensieri». Specularmente, «Riina non è, se non nelle intenzioni, nemico di Di Matteo. Nei fatti è suo complice. Ne garantisce il peso e la considerazione».

Opinioni, come si vede, forti ed aspre, in linea con le solite modalità espressive di Sgarbi. Di Matteo sporge querela sia contro l'autore dell'articolo che contro il direttore Sallusti. Giovedì si celebra il processo: che butti male lo si capisce già quando parla il pubblico ministero, che (anch'egli evidentemente all'oscuro della sentenza di Strasburgo) chiede per entrambi gli imputati la pena detentiva: un anno e 4 mesi per Sgarbi, un anno per Sallusti. Breve camera di consiglio, ed ecco la decisione: le richieste del pm vengono ridimensionate, ma resta la condanna al carcere per entrambi gli imputati (oltre ai 40mila euro a testa da versare al dottor Di Matteo). Né a Sgarbi né a Sallusti viene concessa la sospensione condizionale: significa che, se la sentenza venisse confermata, dovrebbero sperare, per evitare la galera, nell'affidamento ai servizi sociali.

Rischia di ripetersi, insomma, lo scenario del dicembre 2012, quando (anche lì in seguito alla querela di un magistrato) Sallusti venne arrestato in redazione: e fu necessaria la grazia parziale del presidente Napolitano per farlo tornare libero. Il capo dello Stato, con quel gesto, fece capire chiaramente di ritenere ingiusto punire con il carcere reati d'opinione. A chiudere la pratica sembrava fosse poi stata la Corte dei diritti dell'Uomo, che nella sentenza del dicembre 2013 scrisse che «la pena detentiva inflitta per un reato commesso nell'ambito della stampa è compatibile con la libertà di espressione giornalistica eccezionali, come ad esempio, della diffusione di un discorso di odio o di incitazione alla violenza».

Tutto inutile.

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