Politica

Il primo flop del governo: l'imprenditore sfrattato

Fallisce perché lo Stato non paga. Di Maio e Salvini si attivano, ma non lo salvano

Il primo flop del governo: l'imprenditore sfrattato

dal nostro inviato a Monza

Dovrebbe finalmente soffiare il nome del premier, ma lancia messaggi da campagna elettorale. Matteo Salvini è ubiquo almeno come Padre Pio, anche se il miracolo di far rinunciare Di Maio alla poltrona delle poltrone non gli è riuscito. Il leader della Lega tratta a Roma, incrocia il suo corrispondente pentastellato in un hotel di Milano, corre a Monza a casa di Sergio Bramini, l'imprenditore fallito per colpa dello Stato, la prova provata che la pubblica amministrazione fa quel che vuole e umilia i cittadini come sudditi, strangolandoli un po' alla volta come un serpente. La villa di Bramini, 71 anni, una vaga rassomiglianza con Dario Argento e una vita nel business dello smaltimento dei rifiuti, è diventata un santuario della resistenza allo strapotere del fisco, della giustizia, della politica sorda, in definitiva della casta. Nessuno se n'è accorto, ma per salvare l'industriale dallo sfratto qui hanno piazzato le tende, ovvero i loro uffici, il giovane deputato della Lega Andrea Crippa, già assistente di Matteo a Bruxelles, e il senatore 5 stelle Gianmarco Corbetta. Il governo giallo verde a Monza Sant'Albino è già una realtà. Qui giovedi sera è venuto Di Maio, pure lui con un piede a Palazzo Chigi e l'altro nei seggi. E qui a metà mattina si palesa Salvini, sudato ma non scartocciato. Non ci sono ex voto alle pareti, ma manifesti e striscioni di protesta: è il giorno tanto temuto, il fabbro che dovrebbe cambiare le serrature è atteso da un momento all'altro, c'è grande tensione, ma i cronisti provano a riportare Salvini sull'estenuante querelle dell'esecutivo. Lui svicola e si concentra sul caso del giorno: «Qualunque governo nasca ci vuole gente come Sergio. L'Italia è l'unico Paese al mondo che non paga i suoi debiti». In questo caso più di 4 milioni di euro dovuti da enti siciliani che, beffa nella beffa, sono di diritto privato e dunque fuori dal perimetro dello Stato. «Va rivisto - insiste Salvini - il sistema delle aste giudiziarie che alimenta il mercato degli amici degli amici, il mio unico obiettivo ora è di far conoscere la vicenda di Sergio e di migliaia di casi come il suo». Poi finalmente concede qualcosa. Briciole: «In Italia non esiste uno stato di diritto, faremo di tutto perché questo governo nasca».

Il nome del premier, Matteo non lo fa. È un film già visto tante volte in queste settimane di lotta e formazione del governo: chiacchierate con le forze produttive, promesse, strette di mano, per esempio con i mobilieri. Fra un sms a Di Maio e la riscrittura dell'ennesima bozza del contratto. E con le braci di una campagna elettorale che non si spegne mai e potrebbe crepitare all'improvviso. Il Giornale rimprovera al leader leghista di aver tradito il programma del centrodestra, sbandando verso il partner. Lui fa una faccia enigmatica, poi replica: «Risponderò, il Giornale ha una posizione particolare, squilibrata». Poi scappa via.

Nel pomeriggio il fabbro e la polizia arrivano per davvero. Ci sono momenti di tensione, Bramini ha un lieve malore, i presenti, fra cui alcuni parlamentari, formano una catena umana per fermare l'invasione. Ma è tutto inutile. L'imprenditore senza colpe prende le sue cose e se ne va. Salvini e Di Maio forse lunedì daranno vita al nuovo esecutivo.

Ma Bramini non sono riusciti a salvarlo.

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